sabato 23 settembre 2023

Bishojo, la rivolta delle belle ragazze

Articolo pubblicato dalla rivista "GX Magazine". Cfr. Cristiano Martorella, Bishoujo. La rivolta delle belle ragazze, in "GX Magazine", anno IV, n. 21, settembre-ottobre 2006, pp. 38-39.

  

Bishojo, la rivolta delle belle ragazze 

Le implicazioni politiche e sociali dei manga 

di Cristiano Martorella

 

Non esiste uno scontro fra Occidente e Oriente. Questo conflitto è una semplificazione vantaggiosa per chi ha l'intenzione di occultare gli interessi economici e politici di una élite impegnata a trovare il consenso, a imporre una propria idea del mondo, a eliminare le alternative. Estendere questo controllo sulle menti dei giovani è una direttiva essenziale per garantire la leadership futura dello stesso gruppo dirigente che attualmente detiene il potere. Perciò indicare le istanze giovanili come perversioni è la strategia consueta per sopprimere le diversità. A livello globale ciò viene inserito nel dualismo dello scontro epocale fra Occidente e Oriente, nel conflitto culturale fra sistemi di pensiero e ideologie. Non sorprende dunque che il fumetto e l'animazione giapponese siano stati considerati con estrema serietà quali oggetti di corruzione delle attuali generazioni di giovani europei. Fra la schiera di studiosi che hanno sostenuto ciò ricordiamo Sharon Kinsella, Anne Allison e le italiane Vera Slepoj e Maria Rita Parsi. I loro interventi sono così numerosi e documentati che negare quanto affermato è impossibile. Purtroppo non esiste un confronto fra le diverse posizioni accademiche e ogni ricercatore continua le sue indagini isolatamente ignorando il lavoro altrui (1). Ciò è l'indizio della scorrettezza con cui si conducono le ricerche, che spesso sono soltanto l'esposizione di propri pregiudizi e opinioni prive di valore scientifico.

Davvero esiste una gioventù ribelle giapponese come vorrebbero farci credere gli psicologi e i sociologi? Le interviste di Leonardo Martinelli (2) hanno dimostrato il contrario. Il look aggressivo dei giovani giapponesi resta un modo per affermare la propria identità distinguendosi. A volte, viceversa, è l'imposizione di una tendenza e la voglia di fare parte di un gruppo. Comunque, in ogni caso, si cerca il riconoscimento (quello che i filosofi e i sociologi chiamano thymos). Pur avendo fornito un resoconto circostanziato e dettagliato, l'articolo di Leonardo Martinelli è stato volutamente ignorato.

La verità è che la gioventù, e non solo quella giapponese, sta apparendo ribelle a causa dell'oppressione degli psicologi e dei sociologi sempre pronti a condannare e mai disponibili a capire. Gli adulti, con il loro mondo di violenze e ipocrisie, sono un pessimo modello che i giovani, fortunatamente, tentano ancora di rifiutare. Attualmente leggere un manga è considerato dagli psicologi italiani come una devianza, o addirittura una perversione. Queste esagerazioni hanno avuto il sostegno della stampa sempre pronta a creare nuovi mostri. Tuttavia la critica serrata di molti autori in difesa di anime e manga, fra cui ricordiamo Luca Raffaelli, Davide Castellazzi e Marco Pellitteri, non è stata mai confutata dimostrando la falsità delle ipotesi contro la cultura giapponese.

Gran parte delle considerazioni degli studiosi sulla cultura giovanile vertono sull'impatto e l'influenza dei manga e degli anime, perciò è bene tracciarne un quadro storico più chiaro, con particolare attenzione al genere più controverso, ovvero il manga erotico. Bishojo significa bella ragazza. Il genere bishojo manga, il fumetto erotico giapponese in stile non realistico, nasce intorno agli anni '80 dalla congiunzione di due generi molto affermati, lo shojo manga, fumetto per ragazze, e l'adult manga, fumetto pornografico. Prima dell'avvento dello shojo manga, i fumetti giapponesi per adulti ricalcavano lo stile realistico e drammatico detto shunga manga, che aveva una certa continuità con il gekiga, il fumetto realistico. L'espansione del genere shojo manga influenzò e permeò talmente gli altri generi da divenire una tendenza affermata anche a livello culturale ed estetico sotto la bandiera del kawaii (carino). Gli aspetti erotici già presenti nello shojo manga furono esaltati dal bishojo manga che non faceva che riprendere e amplificare qualcosa già esistente. Il manga Berusaiyu no bara (Lady Oscar) di Ikeda Riyoko è un esempio evidente del sottile erotismo degli shojo manga. Perfino un manga apparentemente innocente come Candy Candy di Mizuki Kyoko e Igarashi Yumiko contiene riferimenti velatamente erotici. Ciò spiega l'accanimento della censura italiana e i tagli esorbitanti effettuati sugli anime trasmessi in Italia.

Nella cultura giapponese non esiste una separazione netta fra sesso e amore così come è stata formulata dagli occidentali. L'attività sessuale (sekkusu suru) è considerata naturale, e non è in antitesi con i sentimenti amorosi. La morale occidentale bigotta ha sempre sostenuto la superiorità del sentimento sul sesso, negando la possibilità di provare emozioni profonde tramite il piacere dell'attività sessuale. Ciò non ha senso per la mentalità giapponese che vede una continuità fra sesso e amore invece di un'opposizione. Quanto detto ci permette di capire la presenza di un sottile erotismo nel fumetto per ragazze (shojo manga) dove le storie romantiche e sentimentali sono dominanti, ripreso e amplificato nel bishojo manga che non disdegna una trama sentimentale nonostante l'abbondanza di riferimenti sessuali.

Il passaggio dallo shojo manga al bishojo manga avvenne gradualmente. Nakajima Fumio, autore di manga in stile semirealistico, cambiò il suo stile sposando il genere bishojo. Ciò avveniva intorno alla fine degli anni '80. Nakajima Fumio era stato anche l'autore del primo adult anime video (AAV) intitolato Yuki no kurenai kesho (Il trucco rosso di Yuki, 1984). Ma furono tante le donne che vivacizzarono il genere erotico passando dallo shojo manga al bishojo manga portando la loro esperienza e bravura. Ricordiamo Akasha Mitona, autrice di Metamorphose (1992), un manga che gioca con l'identità sessuale. Miyamoto Rumi riprendeva il tema della timidezza femminile nel manga Binkan meganekko (Tenere quattrocchi, 1992). Marino Aya scherzava sulle situazioni che vedono le donne in un ambiente di lavoro tipicamente maschile come in Ikenai shisen sakura iro (Fare l'occhiolino è rosa ciliegia, 1991). Ramiya Ryo sceglieva temi a tinte fosche simili ad horror, con i personaggi di graziose vampire e zombi come in Zombi no shitatari (Gocciolio dello zombi, 1990) e Crescent Night (1993). Asano Kaori era autrice di Vanity Angel (1993) pubblicato dalla Fujimi, un manga che gioca sui difetti del narcisismo femminile. Fra le autrici di testi per manga erotici ricordiamo la scrittrice Yamada Eimi, un'altra firma prestigiosa che cominciò la carriera nel mondo dei manga per adulti. Queste autrici hanno il merito di aver dato un'impronta femminile al genere del fumetto erotico giapponese. Purtroppo in Occidente non si è minimamente capita l'importanza del contributo delle donne nel fumetto erotico giapponese sostenendo il solito pregiudizio che ritiene la pornografia un appannaggio esclusivamente maschile. Sharon Kinsella è fra coloro che hanno contribuito a sostenere questo equivoco. Ciò può accadere soltanto grazie alla consueta ignoranza che circonda la cultura giapponese. Se i giovani fanno notare gli errori degli adulti vengono immediatamente bollati come ribelli.

Le belle ragazze giapponesi usano il proprio corpo per affermare l'identità sessuale, e quindi per continuità, l'identità personale. Psicologi e sociologi vorrebbero negare questa conquista di autonomia e indipendenza dei giovani per relegarli in posizioni secondarie e subordinate. Lo scontro che sta emergendo è quello fra una élite che detiene il controllo socio-politico e chi vuole conquistare un proprio spazio nella società. Chiamare ciò conflitto generazionale è limitativo e fuorviante. Lo scontro autentico è quello fra gli oscurantisti e gli spiriti liberi. 

   

   

Note 


1. Chi scrive ha presentato una quantità ragguardevole di ricerche su manga e anime nelle sedi accademiche dell'Università degli Studi di Genova e al Centro Studi di Letteratura Giovanile del Comune di Genova. Però aver dimostrato su basi scientifiche gli errori dei sedicenti esperti non è servito a cambiare i discorsi pregiudiziali della stampa generalista.

2. Cfr. Martinelli, Leonardo, Harajuku. Questa pazza, pazza Tokyo..., in "Gulliver", anno IX, n. 3, marzo 2001, pp. 50-78. Leonardo Martinelli, corrispondente dal Giappone per varie testate giornalistiche, è fonte attendibile. L'articolo non è stato citato e nemmeno contestato da coloro che si definiscono studiosi della cultura giovanile. Semplicemente è stato ignorato perché smaschera tutti gli errori di testi che presentano soltanto stereotipi. 

    

    

Bibliografia 


Allison, Anne, Nightwork: Sexuality, Pleasure, and Corporate Masculinity in a Tokyo Hostess Club, University of Chicago, Chicago, 1994.

Buzzi, Carlo, Giovani, affettività, sessualità, Il Mulino, Bologna, 1998.

Dessalvi, Stefano e Pollicelli, Giuseppe, Disegni leggeri, moralmente corrotti, in "Blue", anno X, n. 110, luglio 2000.

Gomarasca, Alessandro (a cura di), La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Einaudi, Torino, 2001.

Hite, Shere, Il primo rapporto Hite, un'inchiesta sulla sessualità femminile, Bompiani, Milano, 1977.

Kinsella, Sharon, Adult Manga, Curzon Press, London, 2000.

Kraft-Ebing, Richard, Psychopathia sexualis, Manfredi, Milano, 1957.

Lowen, Alexander, Amore e orgasmo, Feltrinelli, Milano, 1968.

Martorella, Cristiano, I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell'area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.

Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n. 3, ottobre 1996.

Martorella, Cristiano, Il kawaii prima del kawaii, in Pellitteri, Marco (a cura di), Anatomia di Pokémo, Seam, Roma, 2002.

Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, Genova, 1999.

Masters, William e Johnson, Virginia, L'atto sessuale nell'uomo e nella donna, Feltrinelli, Milano, 1967.

Pellitteri, Marco, Mazinga Nostalgia. Storia, valori, linguaggi della Goldrake-generation, Castelvecchi, Roma, 1999.

Tannahill, Reay, Storia dei costumi sessuali. Rizzoli, Milano, 1985.

Yamada, Eimi, Occhi nella notte, Marsilio, Venezia, 1994. 

   

      

          

   

Articolo pubblicato dalla rivista "GX Magazine". Cfr. Cristiano Martorella, Bishoujo. La rivolta delle belle ragazze, in "GX Magazine", anno IV, n. 21, settembre-ottobre 2006, pp. 38-39.


sabato 16 settembre 2023

La positività etica dei manga eroi

La rivista "Diogene Filosofare Oggi" pubblicò due articoli dedicati al dibattito sui valori etici dei manga. Cristiano Martorella, in qualità di studioso di cultura giapponese, fu interpellato per spiegare i valori positivi dei manga. Quello che segue è l'articolo che è stato pubblicato dalla rivista.  

Cfr. Cristiano Martorella, La positività etica dei manga eroi, in “Diogene Filosofare Oggi”, n.3 anno II, marzo-maggio 2006, pp.58-59.

  

La positività etica dei manga eroi

I fumetti giapponesi: un tentativo di creare significati in una società senza punti di riferimento

di Cristiano Martorella 

I manga sono i celebri fumetti giapponesi che stanno affascinando intere generazioni di giovani, gli anime sono i cartoni animati sempre di produzione nipponica. Intorno a un fenomeno di intrattenimento apparentemente futile, si è sviluppato un dibattito, spesso dai toni vivaci, sul valore educativo di questo genere di letture, e in generale sull’impatto di cartoni animati e fumetti. 

La questione nasce nel 1979, con la protesta dei genitori di Imola, quando la trasmissione del cartone animato di Mazinga provocò la reazione decisa di educatori e psicologi. Si ravvisavano potenziali pericoli per la salute dei bambini, veicolati dalla fruizione di fumetti e cartoni animati giapponesi. Addirittura fu teorizzato un trauma provocato dalla visione di immagini violente o estranee alla nostra cultura. Anche se personaggi autorevoli e attendibili come la psicologa Liliane Lurçat e lo scrittore e pedagogista Gianni Rodari dichiararono esagerati simili allarmismi, lo scontro fra i due fronti pro e contro non mutò. Tuttavia sull’onda del successo delle pubblicazioni di testate dedicate ai manga, molti autori iniziarono a descrivere anche i valori propositivi contenuti nei fumetti e cartoni animati giapponesi. Nel 1994 il giornalista Luca Raffaelli pubblicò il libro Le anime disegnate, nel quale si affrontava il tema sostenendo il punto di vista giapponese e il relativismo dei valori. Nel 1999 l’esperto di fumetti e animazione Marco Pellitteri pubblicò un corposo volume intitolato Mazinga Nostalgia, nel quale si affermava l’esistenza di una generazione di giovani che si erano formati sui valori dei fumetti e cartoni animati giapponesi. La formazione di nuove competenze fra gli studiosi, e la coscienza del problema fra gli appassionati del genere, molti dei quali divenuti adulti, portò perciò allo sviluppo di una situazione diversa. Quando i soliti critici, fra cui spiccano la psicologa Vera Slepoj e l’opinionista Antonio Marziale, attaccarono i personaggi dei Pokémon (a cui erano dedicati libri, cartoni animati, giochi di carte, giochi per consolle), la risposta che fu fornita fu decisa e netta. Nel 2002 Marco Pellitteri curò la pubblicazione di Anatomia di Pokémon, un volume scritto da uno staff di esperti e studiosi di varie discipline che analizzavano in modo scientifico e accurato il fenomeno. Naturalmente i sostenitori della minaccia del relativismo dei valori di manga e anime non seppero ribattere in alcun modo alle tesi sostenute nel volume, dimostrando quanto le loro accuse fossero infondate, vaghe e generiche. Da allora gli appassionati di manga e anime hanno assunto un’importanza non più trascurabile. Il fenomeno del successo dei fumetti giapponesi non è sparito come una moda passeggera, così come avevano sperato erroneamente molti critici. Al contrario si è consolidato nella società italiana. Per questo motivo l’argomento dei valori etici dei manga è assunto a livelli inaspettati e diventa meritevole di una trattazione esaustiva.

Innanzitutto, si deve partire dall’accettazione che manga e anime sono il prodotto di una cultura diversa dalla nostra. I giovani hanno trovato in questo relativismo culturale una ricchezza che la società italiana non forniva da molti anni. Esaurito l’elemento innovativo proposto dalla cultura pop americana, i giovani hanno saputo guardare più lontano rivolgendosi all’Estremo Oriente e al Giappone. Le critiche basate sull’estraneità della cultura espressa da manga e anime sembrano perciò rafforzare il valore etico della diversità culturale. I punti di forza della cultura giapponese sono nell’arte secolare della grafica capace di riempire di significati pochi segni. Una capacità che Roland Barthes aveva messo in evidenza nel saggio L’impero dei segni. L’altro punto di forza è il sistema filosofico giapponese che non si fonda su una conoscenza speculativa di difficile comprensione, ma sulla trasmissione di sentimenti condivisi. Tutto ciò secondo i princìpi di shintoismo e buddhismo. Per questo motivo anche le forme narrative più semplici possono contenere concetti filosofici ed estetici tipici della cultura giapponese. 

Vediamo alcuni aspetti evidenziati dai critici che hanno ravvisato temi molto interessanti nella diversa concezione narrativa di manga e anime. Luca Raffaelli, Marco Pellitteri e Alessia Martini insistono sulla differenza fra supereroi americani ed eroi giapponesi. I supereroi americani sono personaggi con poteri straordinari e forza sovrumana che operano in modo solitario, invece gli eroi giapponesi sono spesso gracili adolescenti alla guida di robot. Mentre gli americani usano la forza bruta, i giapponesi si appellano alla forza di volontà, al senso del dovere, ai princìpi etici e al lavoro di squadra. La presenza di robot nelle storie giapponesi ha lo scopo di amplificare il valore dei sentimenti umani. Quando l’androide è un cyborg, ossia metà uomo e metà macchina, il suo animo umano prevale sulla macchina. Il contrasto fra meccanico ed essere vivente si svolge drammaticamente mostrando l’incommensurabile superiorità della natura umana dotata di risorse imprevedibili. Gli esseri umani sono capaci di azioni incomprensibili per le macchine incapaci di ragionare al di fuori di schemi logici e razionali prefissati. Storie come Kyashan svolgono questo tema fino al limite e alle estreme conseguenze. Ciò è stato rilevato anche dallo studioso di filosofie orientali Marcello Ghilardi. Il merito di manga e anime è quello di aver esaltato positivamente l’irrazionalità umana e l’ineffabile potere dell’io, in un’epoca di eccessiva dipendenza dalle macchine e dalla tecnologia, giunta fino allo strangolamento dell’esistenza operata dalla burocrazia. Lo stesso atteggiamento drammatico è espresso nei confronti della guerra. Invece di fingere la necessità di un conflitto che è soltanto un misto sanguinolento di follia e distruzione, gli eroi giapponesi esprimono il loro disgusto per la guerra. Essi combattono perché costretti dalle circostanze. Tuttavia non si risparmiano nell’esprimere il loro ribrezzo per lo sterminio di vite nella follia collettiva chiamata guerra. Non si fingono operazioni umanitarie per il mantenimento della pace, non si indicano le vittime innocenti col nome di danni collaterali. Il volto autentico e spietato della guerra viene mostrato senza pietà. Certamente una simile rappresentazione non è affatto utile al convincimento per l’arruolamento nell’esercito. Infatti il boom di manga e anime è coinciso in passato con l’escalation delle domande di obiezione di coscienza al servizio militare quando era ancora obbligatorio. Marco Pellitteri e Alessia Martini sono convinti che la generazione cresciuta con i cartoni animati giapponesi sia essenzialmente pacifista e antimilitarista. Un altro elemento trattato è il rapporto con la natura. Un esempio è fornito dai personaggi dei Pokémon, piccole creature fortemente legate all’ambiente e capaci di evolversi soltanto in particolari condizioni. Ogni Pokémon ha un elemento di origine, così un Pokémon d’acqua sarà più abile nel mare, uno di fuoco in un vulcano, uno di elettricità in una tempesta. Molte serie a fumetti giapponesi raccontano lo stravolgimento operato dall’uomo contro la natura, e denunciano la distruzione provocata dall’inquinamento. Spesso propongono di recuperare l’antico equilibrio e l’armonia fra essere umano e natura tramandato attraverso le credenze shintoiste. Questo è il caso della Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki. Ulteriore importante elemento è il relativismo delle categorie di bene e male. In regola con i princìpi buddhisti che non concepiscono una natura maligna in assoluto, il bene e il male sono considerati come conseguenze dei comportamenti dei personaggi. Così non è raro che un personaggio cattivo decida di cambiare atteggiamento, convinto dalla determinazione e generosità del buono, e passi dall’altra parte. Accade nel fumetto di Dragon Ball, dove Junior diventa grande amico di Goku e tutore di suo figlio Gohan. Infine, ultimo ma non meno incisivo, è l’elemento sessuale. I fumetti giapponesi sono l’unico prodotto per giovani che narrano spontaneamente e senza tabù la sessualità, senza nascondere nemmeno i desideri pruriginosi e le perversioni. Si tratta di una libertà sessuale che gli altri mezzi narrativi stanno conquistando con fatica e fra innumerevoli polemiche. I giovani sono convinti che la libertà sessuale sia un diritto imprescindibile, e non sopportano la morale bigotta che tenta di reprimerli. Per questo hanno riconosciuto nei manga una forma di espressione privilegiata dei loro desideri ed emozioni. 

Prima di concludere, è doveroso soffermarsi brevemente sul fenomeno degli otaku, gli appassionati di manga e anime che hanno trasformato la loro passione in ragione di vita. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona giapponese di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. Per questo motivo ci sembra giusto interpretare i manga e gli anime come un tentativo di creare significati in una società che ha perso ogni punto di riferimento. 

   

Bibliografia


Barthes, Roland, L'impero dei segni, Einaudi, Torino, 1984.

Ghilardi, Marcello, Cuore e acciaio, Esedra, Padova, 2003. 

Lurçat, Liliane, Il bambino e la televisione, Armando, Roma, 1985.

Martini, Alessia, I robottoni, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2004.

Pellitteri, Marco, Mazinga Nostalgia, Castelvecchi, Roma, 1999.

Pellitteri, Marco (a cura), Anatomia di Pokémon, Seam, Roma, 2002.

Prandoni, Francesco, Anime al cinema. Storia del cinema d'animazione giapponese, Yamato Video, Milano, 1999.

Raffaelli, Luca, Le anime disegnate, Castelvecchi, Roma, 1994.





Lettura, tecnologia e manga

Articolo sul tema dei rapporti fra lettura e tecnologia pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".


Cfr. Cristiano Martorella, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", anno XL, n. 1, gennaio-marzo 2004, pp.20-23 . 


Dokusho

La lettura fra scienza e tecnologia

di Cristiano Martorella


Dokusho significa lettura in giapponese, e indica l’attività dilettevole del leggere. Quando si tratta questo argomento emerge sempre la connessione fra la lettura e l’ideologia (spesso presentata come pedagogia), così in Giappone come in Italia (1). A Giorgio Bini va il merito di aver sollevato in proposito alcuni dubbi cruciali. Egli ha esposto una domanda tanto semplice quanto ardua nella risposta. Se la tecnologia multimediale ha cambiato il modo di fruire la narrativa, la letteratura giovanile deve adeguarsi con diversi moduli, stili, contenuti e linguaggi? In tal senso, sono cambiate anche le facoltà intellettive dei giovani?

Non si può fornire una risposta se prima non si riconosce l’influenza ideologica sulla letteratura giovanile. Questa influenza è stata opportunamente analizzata per quanto riguarda il passato, mentre è ignorata per il presente. Perché oggi fingiamo che la letteratura si sia liberata da questa influenza quando è vero il contrario? Purtroppo quando si è immersi nell’ideologia è più difficile vederla. L’assetto sociale dei nostri tempi è riconoscibile nell’attitudine economicista della letteratura contemporanea. Il valore di un libro è stabilito dai dati commerciali. Così il libro di un calciatore diventa un best-seller che oscura le opere degli autori contemporanei. La tanto proclamata e vantata liberazione della letteratura dalla pedagogia non è altro che lo spostamento verso un uso puramente commerciale del libro. In passato il libro era il veicolo dell’ideologia, ora è svincolato dai contenuti per rispondere appunto alle esigenze della nuova ideologia. Questa nuova ideologia che chiameremo emporiocrazia, ossia governo del mercato, considera la letteratura un bene di consumo e l’inserisce nel sistema economico che essa stessa sostiene. Insomma, si tratta di un’ideologia più subdola perché priva di contenuti e valori, è l’ideologia del consumismo. Riconosciuto ciò bisogna andare oltre e ottenere una visione complessiva che ci permetta di uscire da questa interpretazione puramente economicista per individuare le prospettive alternative. In tal senso l’esperienza giapponese è molto utile per diversi motivi. Innanzitutto il Giappone è il paese dove la tecnologia è più avanzata, con importanti ripercussioni sia positive sia negative. In secondo luogo, le problematiche riguardanti la letteratura e la tecnica hanno avuto approcci e soluzioni originali in questo paese più avanzato, decisamente ancora sconosciute in Occidente. Soprattutto la questione della tecnica investe il fenomeno degli otaku e della cultura giovanile giapponese (wakamono bunka).

Fin dagli anni ’80 è apparsa prima come una problematica, poi come una risorsa, la cultura giovanile giapponese. Inizialmente il fenomeno era inquadrato nelle categorie della sociologia funzionalista di Robert King Merton, attribuendo il carattere di devianza a ciò che era invece un’autentica innovazione coinvolgente non soltanto i costumi, ma anche i mezzi di produzione e i consumi. Con il termine spregiativo di otaku si intendeva qualcuno che si chiudeva in casa segregandosi per seguire una passione o un hobby in modo fanatico. Questo passatempo (shumi) poteva essere la lettura di fumetti, il modellismo, il collezionismo, etc. Dopo circa un decennio i sociologi si accorsero che il fenomeno non era soltanto passivo e non aveva aspetti unicamente negativi. Gli otaku avevano grande capacità di aggregazione e socialità favorite dalla loro passione, inoltre erano creatori attivi di fanzine (dojinshi), disegnavano, scrivevano, organizzavano raduni. Insomma, erano tutto tranne che asociali e indolenti come erano stati inizialmente descritti. Intanto la sociologia cambiava indirizzo influenzata dal metodo dell’interazionismo simbolico di George Herbert Mead. Così le vecchie analisi erano buttate alle ortiche. In Giappone cominciarono a fiorire studi e considerazioni ben diversi sulla cultura giovanile. Ormai Tokyo era divenuta un laboratorio vivente, specialmente nei quartieri di Harajuku, Shibuya e Akihabara, di questa nuova cultura. La tecnica svolgeva un ruolo importantissimo in questa trasformazione. Le possibilità offerte agli otaku provenivano dal sistema di produzione snella inventato dai manager giapponesi. Con un computer, una stampante, una fotocopiatrice, si poteva realizzare una piccola tipografia casalinga. Questa capacità nasceva negli anni ’80 grazie alla rivoluzione informatica. La comunicazione cambiava tramite internet e telefonia mobile. La televisione era scavalcata e resa obsoleta dal lettore DVD e dal file multimediale. In Giappone ciò fa parte della storia del passato recente, in Italia questo sarà il futuro prossimo.


Qual è dunque l’insegnamento che ci proviene dall’esperienza giapponese? L’aspetto principale che va rimarcato è che i cambiamenti delle tecniche non possono agire da soli sul cambiamento della società, piuttosto è vero il contrario. La richiesta di certe tecniche e il loro successo è dovuto a esigenze sociali. La televisione, così come è ancora concepita, è destinata all’obsolescenza poiché la società del futuro non può tollerare un uso così passivo di un mezzo di comunicazione. Attualmente c’è il tentativo di rendere la televisione interattiva, ma è soltanto un trucco che non inganna le nuove generazioni già avvezze alla navigazione in internet. L’altro insegnamento dell’esperienza giapponese riguarda la cultura e il linguaggio. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. La risposta sociale alla razionalità della tecnica è una virulenta irrazionalità controllabile soltanto da nuovi schemi simbolici  e semiotici. Come diceva Martin Heidegger, citando Hölderlin, dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva. Perciò Giorgio Bini può stare davvero tranquillo sulla sorte della letteratura. Il futuro non vedrà affatto nuovi paradigmi logici, piuttosto risorgerà la saggezza dell’antichità capace di dare senso alla realtà irrazionale dell’essere. Non sarà la tecnica a creare un nuovo essere. Non esiste un essere digitale autonomo e separato dall’essere. La tecnica è un sostegno (Gestell), capacità di creare una realtà artificiale piegando la natura alla volontà dell’uomo. Però ciò che è solo tecnica non giunge mai all’essenza della tecnica. La tecnica ha una sua essenza che prescinde dall’uomo. Così come l’essenza dell’uomo non è la sua opera, così l’essenza della tecnica non è opera dell’uomo. La tecnica si separa e vive di vita propria indipendente dall’uomo perché l’essenza della tecnica è l’essere stesso. Non un nuovo essere, ma l’essere. Insomma, l’uomo non crea la realtà con le sue macchine, egli interagisce e le macchine sono protagoniste di un mondo complesso dove l’idea di controllo e creatore si disfa. Il pericolo è che l’essenza dell’uomo passi la mano all’essenza della tecnica. Dunque l’errore sarebbe quello di vedere un problema tecnico lì dove il problema è umano. I mali dell’uomo non vanno imputati alla tecnica, ma a un rapporto instabile causato dall’uomo moderno incapace di ritrovare se stesso. Un uomo che spesso è impegnato a cercare se stesso nelle macchine che ha creato senza ritrovarsi.  L’essenza dell’uomo non è la sua opera. Purtroppo questo equivoco è la causa dell’incapacità di porre attenzione all’essenza della tecnica, e della confusione  fra tecnica ed essenza, fra uso e vita. La svolta avviene quando si guarda dentro ciò che è, scoprendo che chi guarda ha lo sguardo rivolto verso se stesso. La ricerca della tecnica era ricerca dell’uomo. Dimenticato l’uomo, la tecnica diviene incapace di vedere. La letteratura giovanile sarà veramente emancipata quando vedrà il pericolo della tecnica come salvezza dell’uomo, perché dov’è il pericolo cresce ciò che salva. L’idea che la lettura sia un bene da salvaguardare è illusoria. Ciò che va tutelato è il soggetto pensante. Tutte le parole spese in Italia a favore della promozione della lettura si sono rivelate vacue e soprattutto inutili. Non poteva essere altrimenti. Gli studiosi giapponesi ci insegnano che la lettura è un’attività spontanea che non può essere pianificata dalla didattica. Ogni attività rivolta alla formalizzazione e razionalizzazione della lettura si distingue per essere controproducente e dannosa. Per questo motivo le biblioteche familiari (bunko) che hanno un approccio informale ed emotivo hanno tanto successo in Giappone. La lettura ha bisogno di essere liberata dalle ricette dei sedicenti esperti, dalle formule della lettura per piacere, dalla confusione del sensualismo pasticcione. I libri si leggono, se si leggono, perché interessano. Tutto il resto è vaneggiamento. L’interesse è un processo del soggetto su cui non si può agire tramite il libro che è soltanto un mezzo o meglio un medium. Non esistono ricette per scrivere bei libri. Non esiste un esperto della letteratura capace di convincere a leggere. Quando avremo compreso ciò potremo guardare alla questione della lettura come ciò che realmente è, un sottoproblema della sociologia che può essere trattato seriamente solo in un ambito più ampio. 

La pedagogia e la critica giapponese hanno capito ciò da un bel po’ di tempo. Quando si emanciperà anche la critica letteraria italiana?

  

Note


1. Per la problematica in Giappone si consulti la rivista "Nihon jidobungaku" dedicata alla letteratura per l'infanzia.


Bibliografia


Drake, William, The New Information Infrastructure, Twentieth Century Fund Press, New York, 1995.

Drucker, Peter, Post-Capitalist Society, Harper Collins, New York, 1993.

Eagleton, Terry, Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma, 1998.

Ferretti, Gian Carlo, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino, 1979.

Fukuyama, Francis, La Grande Distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.

Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.

Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in “Quaderni Asiatici”, n.61, marzo 2003.

Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in “LG Argomenti”, n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.

Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.

Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in “Sushi”, n.3, ottobre 1996.

Masuda, Yoneji, The Information Society as Post-Industrial Society, World Future Society, Washington, 1981.

Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.

Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.




 

Wakamono I paradossi della cultura giovanile giapponese

Articolo intitolato Wakamono sul tema della gioventù giapponese pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". 


Cfr. Cristiano Martorella, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti",  n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003, pp.67-71.


Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese

di Cristiano Martorella


Dopo alcuni interventi che hanno suscitato roventi polemiche, torniamo sull’argomento della cultura giovanile giapponese per occuparcene in modo più approfondito e dettagliato. A dispetto della presunta occidentalizzazione della gioventù nipponica, soltanto recentemente si è scoperto quanto siano originali e creativi i giovani giapponesi (wakamono significa appunto giovane). Invece di considerare il fenomeno per quello che realmente è, ossia la normale ricerca di un’identità da parte dei giovani, molti opinionisti e studiosi hanno cominciato a descrivere la cultura giovanile giapponese con termini inquietanti e appoggiandosi alla documentazione inattendibile della stampa scandalistica. L’immagine decadente della gioventù giapponese si diffuse così rapidamente, e senza controllo, da divenire un luogo comune anche della stampa che si definisce scientifica. Ed è questo un caso molto interessante da studiare, per capire i reali meccanismi dell’informazione mass-mediologica. Fra i tanti articoli italiani spicca in questo senso l’intervento di Michele Scozzai.


   "Collezionano biancheria femminile usata […] e divorano fumetti manga, storie d’amore, di sesso e di violenza disegnate con eccezionale realismo. Comunicano via computer, si drogano di immagini (da quelle innocenti di Goldrake o Lupin III alla più spinta delle pellicole pornografiche) e delle quattro mura del piccolo monolocale dove vivono hanno fatto i confini del loro mondo. Eccoli gli otaku, un esercito di giapponesi stanchi, ribelli, figli del consumismo, maniaci di una cybercultura masturbatoria."   [Michele Scozzai, La strana tribù del Giappone, in “Focus”, n.95 settembre 2000, p.66]


La correlazione fra gioventù contemporanea giapponese e sesso, fumetti, masturbazione e prostituzione è ormai una costante in tutte le pubblicazioni, anche scientifiche, sull’argomento. Ma indagini sociologiche approfondite e serie che forniscano dati accertabili e metodi della ricerca non sono mai state pubblicate.  E perfino in Giappone, le ipotesi di sociologi come Okonogi non sono andate oltre le supposizioni e le proposte di interpretazione dei fenomeni (cfr. Keigo Okonogi, Moratoriamu ningen no jidai, Chuo Koron Sha, Tokyo 1981). Al contrario, c’è stato chi ha puntato l’attenzione sulla crescente disinformazione intorno al Giappone contemporaneo.


   "Negli ultimi anni il Giappone è tornato a stupire il mondo occidentale, ma questa volta dando l’impressione, ormai generalizzata, di un paese in forte crisi, non solo economica, ma di identità. Confermando, secondo alcuni, le tesi che vedevano nel Giappone un paese solo apparentemente potente, ma essenzialmente fragile, e nei giapponesi un popolo senza più identità e motivazioni diffuse e credibili. Alcuni fatti calamitosi […] hanno contribuito a rafforzare l’idea di un Giappone fragile, e nello stesso tempo di un luogo inquietante, una sorta di laboratorio della postmodernità e delle sue crepe. A fronte di queste premesse, emergeva con chiarezza, affrontando l’oggetto “otaku”, di valutare il peso e l’influenza, sulla nostra indagine, di queste immagini distorte, immagini e suggestioni di cui non potremo in ogni caso liberarci fino a quando non avremo, per il Giappone, un interesse eterodiretto."   [Massimiliano Griner e Rosa Isabella Fùrnari, Otaku. I giovani perduti del Sol Levante, Roma, Castelvecchi, 1999, p.17]


Le parole giuste e corrette di Griner e Fùrnari non hanno però avuto ascolto. Così sono continuati i resoconti pittoreschi che fornivano immagini sempre più distorte della gioventù giapponese. L’argomento coinvolgeva testate giornalistiche importanti e di ampia diffusione. Il caso interessava perfino la rivista “L’Espresso” che vi dedicava un reportage ovviamente con i consueti toni catastrofici.


   "È un problema che sta assumendo proporzioni sempre più allarmanti, al punto che un istituto di ricerche fra i più quotati, su incarico del governo, ha svolto un’indagine approfondita sull’estensione e sulle probabili cause del fenomeno che, in giapponese, si chiama “hikikomori” e che significa “ritiro”. Ne risulta che sul milione di giovani che hanno scelto la reclusione, l’80 per cento sono maschi, che il 41 per cento trascorre in isolamento assoluto o parziale - rifiutando, per esempio, di parlare o di aver qualsiasi contatto sociale - un periodo che va dai sei mesi ai dieci anni e più, che alcuni (ma non è stata accertata la percentuale) soffrono di depressione, di agorafobia e di schizofrenia, mentre altri, forse la maggioranza, non presentano nessun sintomo evidente di disturbi neurologici o psichiatrici. Quanto alle cause del “hikikomori”, si avanzano spiegazioni sociologiche e psicologiche di ogni genere, ma mai, concordano gli esperti, si sarebbe immaginato che il complesso di Peter Pan, largamente diffuso negli anni Ottanta, e che si manifestava con il rifiuto degli adolescenti di diventare adulti, si sarebbe evoluto fino ad assumere questa forma estrema di auto-reclusione."   [Renata Pisu, Samurai robot, in “L’Espresso, n.29 anno XLVIII, 18 luglio 2002, p.115] 


Si può osservare come non venga fornito alcun nome circa l’istituto di ricerche, gli studiosi e gli psicologi che avrebbero condotto questo studio, rendendo praticamente privo di valore scientifico e di credibilità l’articolo e i dati presentati. Se non è possibile una verifica delle fonti, viene vanificata ogni correttezza e precisione delle ricerche. Ma l’interesse della giornalista era rivolto a colpire il lettore con un’immagine impressionante della gioventù giapponese. E basta poco per trovare le presunte cause della degenerazione della gioventù: l’eccessivo sviluppo tecnologico.


   "In Giappone è opinione diffusa che se non ci fossero a disposizione tutti questi marchingegni, i ragazzi non se ne starebbero rinchiusi da soli, cullandosi nella convinzione che la loro interfaccia è l’universo intero, che la tecnologia è il loro autentico sistema nervoso al quale sono collegati mediante un complesso di apparati. Secondo la maggior parte degli psicologi che si interrogano - assieme a sociologi e cibernetici - sulle cause del “hikikomori”, si è andata creando una simbiosi totale tra corpo e meccanismi elettronici che ha portato a una forma inedita di autismo: l’autismo tecnologico."    [Ibidem]



Non è affatto vero che in Giappone sarebbe diffusa l’opinione che la tecnologia travierebbe i giovani. Soltanto qualche esaltato luddista  può sostenere che la macchina minaccia l’uomo. Piuttosto è la perdita del senso della vita umana che rende distorto il rapporto con la tecnologia, così come indicava Martin Heidegger (cfr. Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976). Gli studiosi giapponesi ritengono invece che la cultura nipponica abbia assunto la tecnologia occidentale adattandola alla propria storia e tradizione. Questa è la posizione assunta anche da Atsushi Ueda che ribadisce l’importanza della specificità culturale giapponese (cfr. Atsushi Ueda, Electric Geisha. Tra cultura pop e tradizione in Giappone, Feltrinelli, Milano1996). L’interpretazione dell’impatto della tecnologia sulle giovani generazioni giapponesi non è affatto univoca come vorrebbero farci credere i giornalisti. L’economista Ken’ichi Omae suggerisce le possibilità di queste nuove generazioni all’interno di un’economia liberista (il modello economico che si è affermato a livello planetario).


   "La generazione di “Shonen Jump”, che oggi è tra i trenta e i quaranta anni, è fondamentalmente diversa da qualsiasi generazione precedente (“Shonen Jump” vendeva 6 milioni di copie alla settimana. Questa generazione è nota per la sua incapacità di pensare con la stessa logicità e consequenzialità della generazione immediatamente precedente: idee e pensieri saltano da una scena all’altra, senza transizioni, come succede ai giovani occidentali cresciuti davanti a MTV). È una generazione etichettata come “più debole”. Si dice che coloro che ne fanno parte non abbiano la stessa resistenza delle generazioni precedenti, non avendo dovuto attraversare le stesse difficoltà dei genitori e dei nonni. E non hanno neanche la stessa fantasia e la stessa motivazione della generazione successiva, quella dei “ragazzi Nintendo”. Sono una generazione perduta, e incarnano uno dei motivi alla base del ristagno dell’economia giapponese, rappresentando la porzione più consistente della popolazione attiva. Al contrario i “ragazzi Nintendo” della generazione successiva, oggi tra i venti e trent’anni, hanno molte più speranze. I giochi di ruolo (in sigla RPG) con cui sono cresciuti li hanno plasmati in modo inconfondibile. Tentano tutte le strade possibili; sono flessibili e molto più creativi di qualsiasi generazione precedente. Il loro problema è uno solo: quando si trovano in difficoltà reagiscono come se la vita fosse un gioco elettronico, cioè premendo il tasto “Reset”. Cercano un nuovo lavoro, una nuova città, una nuova carriera. “Fine partita. Ricomincia”. Sono pieni di immaginazione ed entusiasmo per il tipo di azione in cui “si spara senza mirare”. E proprio queste apparenti carenze li rendono molto più efficaci, come cittadini del nuovo continente."   [Kenichi Ohmae (Ken'ichi Omae), Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell’era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma 2001, pp.350-351]



A questo punto risulta interessante fare un passo indietro e chiedersi il perché di tanta attenzione nei confronti della gioventù giapponese da parte della stampa italiana. Soprattutto è sorprendente la rappresentazione pittoresca dei caratteri mostruosi. Ed è questa mostruosità, che potremmo definire con il termine freak, a colpire l’immaginazione. Il mostro, il diverso è il tema che emerge prepotentemente.

   Ma questo topos che i romantici avevano ben studiato (si pensi alla creatura di Mary Shelley e al gobbo di Victor Hugo) ha aspetti più profondi di quelli maldestramente evidenziati dai giornalisti. I romantici ci hanno insegnato che siamo noi a creare i mostri, a isolarli rendendoli asociali, separati e diversi. Autori come Edogawa Ranpo hanno messo in luce in quale modo il mostro tragga la sua forza da una società borghese corrotta (con altri toni vi era riuscito anche Luigi Pirandello). I mostri sono indispensabili in una società razionalizzante e burocratica che occulta continuamente la vera natura umana. Il mostro è il condensato di tutto ciò che è incomprensibile, istintivo, vitale e soprattutto libero. Il mostro soffre nell’isolamento in cui è gettato dal consorzio umano che stabilisce a priori i ruoli e le mansioni degli individui. E non può far altro che esprimere la sua identità e diversità tramite la distruzione della società che l’ha condannato. In ogni caso il mostro sarà sempre vincente perché avrà affermato la sua identità al di sopra dell’omologazione comunitaria.

   Per quanto riguarda la gioventù giapponese, è completamente mancata un’indagine sociologica seria che valutasse e ponderasse le istanze dei giovani. Non si è andati oltre la pittoresca descrizione della mostruosità presunta. Paradossalmente i manga ritraggono la realtà giovanile giapponese meglio dei malsani saggi sociologici che si stanno pubblicando. L’unico modo per comprendere le kawaikochan (le graziose ragazze giapponesi) è avvicinarsi ai loro sentimenti, e i manga sono capaci di ciò, molto meglio delle fredde tassonomie e delle false ricostruzioni storiche. Ricordiamoci cosa ci accomuna tutti, noi e i giapponesi: siamo esseri umani. I desideri, le aspirazioni, le speranze e le illusioni fanno parte del nostro animo. Sono i sentimenti che motivano i comportamenti umani, e non certo le dogmatiche e schematiche definizioni di una supposta economia dello scambio. Le kawaikochan sono mosse da desideri che, seppure nella loro ingenuità, hanno dignità e ragione di rispetto. L’amicizia come valore, il piacere come arricchimento delle esperienze, il dolore come conoscenza della realtà, la consapevolezza di poter sbagliare e illudersi. Se ci fossimo fermati a riflettere sulle emozioni delle kawaikochan avremmo veramente compreso il loro mondo invece di fornire una banale rappresentazione viziata da un cumulo di assurdi stereotipi.





Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti",  n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003, pp.67-71.



Orientalismo vero e presunto

Orientalismo vero e presunto

Equivoci e fraintendimenti sull'opera di Hiroki Azuma
di Cristiano Martorella

La pubblicazione in Italia del libro Generazione Otaku (1) di Hiroki Azuma ha riproposto una serie di questioni spesso equivocate e fraintese, su cui è bene fare chiarezza. Alcune argomentazioni hanno infatti inquadrato il volume nell'ambito della polemica sull'orientalismo (2). Il termine orientalismo, in una accezione fortemente negativa e dispregiativa, indica un atteggiamento essenzialista che stabilisce un insieme eterogeneo di preconcetti e stereotipi sulla civiltà orientali. Il problema più grave della polemica contro l'orientalismo è lo squlibrio di questa posizione teorica che non fa distinzioni e rischia di negare le specificità delle società asiatiche e le differenze culturali.
La critica contemporanea all'orientalismo è contigua e complice dell'attacco al relativismo tipico della nostra epoca. Non capirlo significherebbe altrimenti essere incantati dalla retorica logorroica della polemica fine a se stessa, perché orientalismo e relativismo culturale sono strettamente connessi. Dal punto di vista storico, infatti, l'orientalismo nasce con l'Illuminismo nel XVIII secolo, quando i philosophes formularono l'idea di relativismo (3) fondamentale a scardinare le certezze teologiche delle epoche precedenti.
Postulare la differenza di valori, credenze, culti religiosi e istituzioni delle società non è soltanto un vezzo dei relativisti, ma è un metodo necessario e indispensabile per lo studio di qualsiasi società. Se non si applica il metodo del relativismo culturale si cade nel più becero etnocentrismo e nell'ottuso dogmatismo, o perfino nell'irrazionalismo e nella superstizione. Dunque l'orientalismo non può essere ridotto e considerato come una deformazione o tendenza equivoca, ma deve essere valutato contestualmente in relazione ai fatti storici.
L'aggravante nell'uso negativo del termine orientalismo proviene dalla citazione impropria del lavoro di Edward Said che invece ne fece un uso in un ambito filologico molto circostanziato. Infatti si è abusato degli studi dell'arabo Edward Said per rigettare la storiografia sulla civiltà giapponese, in modo da evitare qualsiasi confronto con i nipponisti e invalidare la ricerca scientifica. Se visto sotto un certo punto, ciò risulta molto buffo. Edward Said, intellettuale palestinese nato a Gerusalemme nel 1935, cita la Cina e il Giappone per far notare la confusione che avviene in orientalistica utilizzando le stesse idee per civiltà estremamente differenti (4). L'errore denunciato da Said è il medesimo che viene compiuto da chi usa il suo stesso lavoro indirizzato esclusivamente al mondo islamico per spiegare il Giappone. Edward Said nel suo libro intitolato Orientalismo, cita il Giappone soltanto sei volte e quasi sempre per indicarne le diversità dal contesto analizzato. Il fatto che il lavoro di Said sia rivolto in modo particolare al mondo islamico è dichiarato esplicitamente dall'autore, come risulta dal seguente passaggio:

"Per ragioni che esporrò tra breve ho ulteriormente limitato questo ambito di ricerca (comunque ancora estesissimo, a ben guardare) all'esperienza anglo-francese-americana nel mondo arabo e islamico, che per quasi mille anni è stato da molti punti di vista il paradigma di tutto l'Oriente. Sono così rimaste escluse vaste zone dell'Oriente geografico e culturale - India, Giappone, Cina e altre regioni dell'Estremo Oriente - , non perché queste ultime non siano importanti (è anzi ovvio che lo sono), ma perché l'esperienza europea del Vicino Oriente e del mondo islamico può essere discussa separatamente da quella dell'Estremo Oriente." (5)

Gli imitatori incauti di Edward Said, ovvero coloro che usano le sue idee in modo improprio e fuorviante, hanno cercato di sostenere che ogni studio sulla società giapponese fosse una semplice rappresentazione astratta, e soprattutto hanno contestato l'unità culturale nipponica frantumandola in decine di subculture ancora più astratte della cultura originaria. Il risultato è affascinante, ma pieno di equivoci, fraintendimenti e falsità. Soprattutto risulta ambiguo il tentativo di fornire un quadro alternativo della cultura giapponese che è però in contraddizione con la cultura tout court.
Questi equivoci sull'orientalismo sono pericolosi perché favoriscono il rischio della negazione di fatti storici accertati, sbrigativamente etichettati come preconcetti e stereotipi. Ciò non è soltanto assurdo, ma mina profondamente la credibilità degli studi inerenti alle civiltà orientali. Per quanto riguarda il Giappone, per esempio, una cattiva interpretazione dell'orientalismo impedisce di comprendere il fatto storico dell'ascesa della borghesia nell'epoca Edo (1603-1867). L'idea rozza che l'antiorientalismo presenta con superficialità, sostiene che il periodo Edo fosse caratterizzato da uno sfruttamento delle classi di contadini, artigiani e mercanti da parte dell'aristocrazia (6). In realtà è vero l'esatto contrario. La classe emergente dei commercianti aveva assunto un potere tale da condizionare i samurai. I samurai erano pagati in riso, e per ottenere la moneta necessaria, dovevano convertire il riso in denaro presso i mercanti che speculavano fortemente sul cambio. Inoltre i samurai si indebitavano spesso con i mercanti ed erano vittime di ricatti e pressioni. Le quattro classi (shimin) erano composte da aristocrazia guerriera (bushi), contadini (nomin), artigiani e commercianti (shomin). Nell'epoca Edo la classe emergente era quella dei commercianti. Addirittura molti samurai rinunciarono al loro status per diventare commercianti. Il caso più eclatante fu quello di Takatoshi Mitsui (1622-1694) che fu fra i primi a rinunciare al rango di samurai per divenire commerciante fondando i negozi Mitsui, in seguito conosciuti come un potente zaibatsu (ancora oggi esistente). Perciò si può affermare che la società giapponese sia stata caratterizzata nel suo sviluppo storico da una notevole mobilità sociale, aspetto estremamente trascurato dagli studiosi.

In conclusione, la polemica sull'orientalismo presenta più criticità dello stesso orientalismo, e offre molti più stereotipi e preconcetti. La polemica, quindi, non è soltanto inconcludente ma anche inaffidabile. Si dice che l'epoca postmoderna sia caratterizzata dall'incertezza e dall'ambiguità, ma se ciò influisce anche sulla ricerca scientifica mancando una conoscenza rigorosa e precisa, si rischia di essere invischiati in un irrazionalismo indefinito e farraginoso.


Note

1. Azuma, Hiroki, Generazione Otaku. Uno studio della postmodernità, introduzione e cura di Marco Pellitteri, Jaca Book, Milano, 2010. Il titolo originale dell'opera è però diverso: Un postmoderno animalizzante. Cfr. Azuma, Hiroki, Dobutsuka suru posutomodan. Otaku kara mita Nihon shakai, Kodansha, Tokyo, 2001.
2. Sulla questione dell'orientalismo si consulti l'edizione italiana del libro di Hiroki Azuma. Cfr. Azuma, Hiroki, Generazione Otaku, op. cit., p.27.
3. Ciò dovrebbe essere ben noto anche a chi non ha approfondite conoscenze accademiche, ma ha semplicemente frequentato un corso di filosofia in qualche liceo. Si consulti, per esempio, un celebre volume di Nicola Abbagnano. Cfr. Abbagnano, Nicola, Storia della filosofia. La filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, vol.4, TEA, Milano, 1995, pp. 236-281. L'opera più ferocemente relativista e ironica è comunque il racconto Micromega di Voltaire, in cui un abitante della stella Sirio deride la credenza che l'uomo sia il centro e il fine dell'universo. Nel Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau si fa notare come la società umana sia una costruzione artificiale, e quindi relativista, che è spesso in contrapposizione con la spontaneità della vita naturale.
4. Edward Said aveva messo in evidenza queste differenze in un suo articolo sul Giappone. Cfr. Said, Edward, Un arabo a Tokyo, in AA.VV., Sol Levante, Internazionale, Roma, 1996, pp. 69-72. L'articolo era apparso sul quotidiano "Al-Hayat" del 10 luglio 1995.
5. Said, Edward, Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 25-26.
6. Sulla questione si consulti Azuma, Hiroki, Genererazione Otaku, op. cit., pp. 25-26.

sabato 9 settembre 2023

Koden la tecnologia giapponese

Scheda originariamente pubblicata dal sito Nipponico.com.


Koden

Con il termine koden si indica una serie di interfacce elettroniche. Traducibile all’incirca come “individuo elettrificato”, la parola giapponese è composta da ko (individuale) e denshi (elettronico). Dunque, una integrazione dell’elettronica con l’organismo umano, così come immaginato da Nicholas Negroponte (1). Sarebbe un koden, ad esempio, il walkman della Sony che permette di camminare ascoltando musica. Oppure la playstation che proietta l’individuo in un mondo virtuale interagendo con la realtà simulata.

Molti hanno interpretato negativamente il fenomeno koden. Renata Pisu ha usato toni apocalittici parlando di “scenari di mutazioni globali”. Non è però la prima volta che la tecnologia giapponese viene descritta con la prospettiva dell’ideologia.

Nicholas Negroponte, fra i massimi esperti di informatica e tecnologia digitale, ha colto invece le possibilità positive di queste trasformazioni.


“Media da indossare. Velluti che fanno calcoli, mussole dotate di memoria, sete a energia solare: con questi tessuti potrebbero essere fatti gli abiti digitali di domani. Invece di tenere il computer in mano, indossalo. Anche se non ce ne rendiamo conto, già ora ci portiamo addosso un numero sempre maggiore di dispositivi per elaborare e comunicare. L’orologio da polso è il più comune. Da strumento per misurare il tempo qual è oggi, si trasformerà domani in un centro mobile di comando e controllo. Lo si porta con tale naturalezza, che molta gente se lo tiene anche quando dorme”. (2)


Completamente diversa l’opinione di Renata Pisu che vede la tecnologia come una minaccia.


“Ma anche senza arrivare a questi estremi, come mai l’elettronica di consumo riscuote tanto successo in Giappone più che in ogni altro paese del mondo? C’è forse qualcosa di connaturato nella cultura giapponese, una naturale predisposizione a mettere sullo stesso piano organico e inorganico? […] Ma si tratta di affettività umana o “umanoide”? Il quesito può apparire assurdo, eppure l’orrendo termine giapponoide sta già entrando nell’uso per indicare i giapponesi, uomini la cui umanità avrebbe subito una mutazione. Si presentano, infatti, come pre-moderni e post-moderni, si direbbe quasi che la modernità fosse stata vissuta da loro come un tempo fuori dal tempo, durante il quale alacremente, si sono appropriati della tecnologia venuta da lontano per poi introiettarla. E questa introiezione avrebbe provocato in loro la mutazione: da giapponese a giapponoide, cioè un umano che vive in un paese dove è stata realizzata una sorta di tecno-utopia, un umano che è un koden, un individuo il cui corpo è elettronificato e che non potrebbe vivere senza le sue protesi tecnologiche, sempre più “incorporate”, cioè pensate in modo da fondersi con la persona, oppure studiate in modo da condizionare i ritmi e i piaceri”.


Ma le affermazioni di Renata Pisu non si fermano qui. Il koden è addirittura paragonato alla droga: il computer e la playstation come l’eroina.


“Il fenomeno limite dell’hikikomori è possibile soltanto in una società che ha attuato questa elettronificazione di massa e che permette, quindi, ai giovanissimi un rifiuto della realtà grazie al sostituto virtuale ottenibile con le varie “protesi”, da Internet al videogioco, alle quali tutti hanno accesso. In società meno tecnologicamente avanzate, il rifiuto si esprime in altri modi, con la droga prima di tutto e poi con la violenza o con altri vari tipi di comportamenti asociali”. (3)


Renata Pisu dimostra, senza accorgersene, che non sono necessarie droghe chimiche o virtuali per delirare. Semplicemente è sufficiente aderire a un’ideologia che vede nel diverso, in questo caso il Giappone e i giovani, l’apice di tutti i mali.


Il nipponista Cristiano Martorella ha dato battaglia contro queste interpretazioni ideologiche della tecnologia giapponese. Al XXV convegno di studi sul Giappone (Venezia, 4-6 ottobre 2001) presentò una relazione sul concetto giapponese di economia in cui criticava aspramente tutte le forme di pregiudizi che inficerebbero la ricerca scientifica. Inoltre aveva già evidenziato le motivazioni culturali che determinerebbero gli aspetti dell’industrializzazione giapponese (4). Ad esempio, la mancanza di una distinzione fra cosa (mono) e persona (mono) nell’ottica dell’animismo shintoista. Una prospettiva che non mortifica l’individuo, ma sacralizza le cose valorizzandole oltre il mero significato di merce. Se si impara a rispettare le cose, sarà più facile applicare il rispetto anche per le persone.


A favore dell’interpretazione propositiva della tecnologia giapponese ci sono le ricerche di numerosi studiosi che sono state sistematicamente occultate per costruire una rappresentazione stereotipata e negativa del Giappone contemporaneo. Il volume Electric geisha (5) presenta un quadro totalmente diverso da quello descritto da Renata Pisu. Gli autori, estremamente qualificati (sono quasi tutti professori universitari), innanzitutto smentiscono l’idea di un Giappone che acquisisce copiandole le tecnologie occidentali. I giapponesi sono fra i maggiori inventori di brevetti, ed è ormai privo di senso pensare alla tecnologia come qualcosa di occidentale. La tecnologia non è concepibile come un’esclusiva culturale. 

Electric geisha è un libro corale in cui gli autori approfondiscono i diversi aspetti che collegano la tecnologia e la cultura giapponese. Hashizume Shin’ya descrive le caratteristiche del piacere del bagno, Hayama Tsutomo racconta la passione del pachinko, Moriya Takeshi spiega il successo dei corsi di arti tradizionali, Katou Akinori si occupa del fenomeno delle vacanze all’estero, Narumi Kunihiro ci parla del karaoke, Yoshii Takao delle origini dei mezzi di comunicazione di massa nel periodo Edo (1600-1867) e Meiji (1868-1912), e così via.  Insomma, argomenti concreti dove la tecnologia svolge il suo ruolo autentico: un mezzo finalizzato alla realizzazione di uno scopo.

L’interpretazione del koden da parte di autori come Renata Pisu e Alessandro Gomarasca, risulta quindi parziale e viziata da pregiudizi ideologici che leggono ogni fenomeno tecnologico come diabolico. Ma la tecnologia, incluso il koden, non è né un bene né un male, è soltanto un mezzo il cui uso (buono o cattivo) dipende dall’uomo.




Note


1. Negroponte, Nicholas. 1995. Essere digitale. Sperling & Kupfer, Milano. Negroponte, uno dei maggiori esperti mondiali di comunicazione digitale, professore al Massachusetts Institute of Technology (MIT) e direttore del Media Lab.

2. Cfr. Negroponte, Nicholas. 1995. Essere digitale. Sperling & Kupfer, Milano, p.219.

3. Pisu, Renata. Samurai robot, in “L’Espresso”, n.29 anno XLVIII, 18 luglio 2002, p.116.

4. Martorella, Cristiano. Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico. Tesi discussa alla Facoltà di Lettere e Filosofia, Genova. A.A. 1999-2000.

5. Ueda, Atsushi (a cura di). 1996. Electric geisha. Feltrinelli, Milano.



Bibliografia


Gomarasca, Alessandro (a cura di). 2001. La bambola e il robottone. Einaudi, Torino.

Negroponte, Nicholas. 1995. Essere digitale. Sperling & Kupfer, Milano.

Pisu, Renata. 2001. Alle radici del sole. Sperling & Kupfer, Milano.

Ueda, Atsushi (a cura di). 1996. Electric geisha. Feltrinelli, Milano.

Hall, Rupert e Boas Hall, Marie. 1991. Storia della scienza. Il Mulino, Bologna.



lunedì 7 agosto 2023

Il riarmo del Giappone e la rivincita pop

Articolo pubblicato dalla rivista "Manga Academica".

Cfr. Cristiano Martorella, Il riarmo del Giappone e la rivincita pop, in "Manga Academica", vol. 10, Società Editrice La Torre, Caserta, 2017, pp. 257-268. 

              


Il riarmo del Giappone e la rivincita pop

di Cristiano Martorella 

                                                   

1. Il contesto internazionale e geopolitico


Negli ultimi anni il Giappone ha occupato un posto rilevante sulla stampa internazionale per i temi che riguardano la geopolitica e le questioni militari, con una sorprendente ripresa di interesse per argomenti che si credevano dimenticati nei meandri della storia. La causa di ciò è facilmente rintracciabile nella consistente crescita della spesa militare delle potenze nell'area dell'Estremo Oriente, provocata dalla reazione all'imprevedibile minaccia della Corea del Nord e ai timori per l'aumentata assertività e l'aggressiva politica espansionistica della Repubblica Popolare Cinese. 

Il pericolo rappresentato dalla Corea del Nord è ben noto, e nonostante gli aspetti stravaganti di questo regime dittatoriale, si può affermare che sia una minaccia molto seria, considerando i progressi raggiunti nel produrre armi di distruzione di massa. I primi quattro test nucleari, che si sono svolti il 9 ottobre 2006, il 25 maggio 2009, il 12 febbraio 2013 e il 6 gennaio 2016, hanno mostrato al mondo la capacità del paese nel costruire bombe atomiche. Questo potenziale sta crescendo grazie ai programmi di arricchimento dell'uranio, mediante centrifugazione, e di produzione del plutonio tramite i reattori nucleari in funzione. Gli analisti stimano che la Corea del Nord possegga già almeno una ventina di testate nucleari, ma anche se il numero fosse inferiore, è comunque destinato ad aumentare per effetto dei programmi in corso. Inoltre si deve anche considerare che le valutazioni occidentali si sono spesso rivelate errate per difetto, avendo sempre fornito una stima che sottovalutava la reale capacità nordcoreana. Soprattutto ciò che sta migliorando vistosamente è la produzione missilistica con l'introduzione di nuovi modelli e la conferma dell'efficienza dei precedenti vettori. Si consideri che l'arsenale nordcoreano può già vantare il possesso di missili balistici a medio e lungo raggio, fra cui ricordiamo lo Hwasong-6 con una gittata di 700 km, il Rodong con 1.500 km, il Musudan con 4.000 km, il Taepodong-1 con 2.000 km, il Taepodong-2 con 6.000 km, e infine il Pukguksong-2 che avrebbe un raggio d'azione stimato fra 6.000 e 12.000 km. 

Le ragioni che spingono il regime nordcoreano a questa incredibile corsa agli armamenti sarebbero soprattutto da rintracciare in una ricerca di prestigio, e anche per consolidare l'immagine di potenza che viene diffusa ampiamente dalla propaganda con lo scopo di rafforzare il consenso interno. Tuttavia le tensioni con i paesi vicini sono in costante aumento a causa della pericolosità delle azioni del regime di Pyongyang, Non bisogna dimenticare che i test dei missili balistici vengono effettuati nel Mar del Giappone, in prossimità del territorio giapponese. Un incidente è quindi sempre possibile, così come un qualsiasi atto provocatorio potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. 

Ancora più complessa e articolata è la situazione che riguarda la Repubblica Popolare Cinese. Infatti la Cina ha contenziosi territoriali con gran parte dei paesi vicini, e perfino con quelli più lontani come l'Indonesia e la Malesia.  Ciò corrisponde a una precisa politica espansionista che è accompagnata da un'idea di politica estera impegnata a imporre, anche con la forza, l'egemonia cinese. Sul continente la Cina si confronta con l'India, a cui vorrebbe strappare alcuni territori, in particolare l'Arunachal Pradesh al confine col Tibet, ufficialmente rivendicato dalla Cina, ed è inoltre minacciata anche la regione di Ladakh nel Kashmir. Per questi territori si è già combattuta una breve guerra fra India e Cina nel 1962. 

Ma è sul mare che si registrano gli scontri più preoccupanti che coinvolgono numerose nazioni, fra cui anche il Giappone. Brevemente possiamo riepilogare le più importanti di queste dispute. Con la Corea del Sud esiste un contenzioso nei riguardi della scogliera Ieodo che la Cina non riconosce e inserisce nelle acque di propria competenza. Ancora più grave è la situazione con Taiwan, che pur essendo uno stato de facto, non vede riconosciuta la sua indipendenza nonostante possa eleggere democraticamente un proprio parlamento. Formalmente Taiwan è considerata una “provincia ribelle” che potrebbe essere assoggettata anche militarmente. La questione politica di Taiwan è dunque ben lontana dall'essere risolta, e le tensioni rimangono elevate. Ma la zona più vasta rivendicata dalla Repubblica Popolare Cinese è nel Mar Cinese Meridionale, dove esiste una pesante militarizzazione delle isole con la costruzione di avamposti, piste per i bombardieri, installazioni di missili e cannoni antiaerei, e attracchi per le navi da guerra. 

In base a una decisione unilaterale e arbitraria, nel 1947 le Repubblica Nazionalista di Cina segnò su una mappa i presunti confini marittimi nel Mar Cinese Meridionale. Questo documento chiamato “la linea dei nove punti” fu ripreso nel 1949 dalla Repubblica Popolare Cinese. Il problema più grave di questo documento è l'inserimento nel territorio cinese di isole che appartengono palesemente ad altri paesi, commettendo un evidente abuso. In totale la Cina rivendica il 90% circa delle acque del Mar Cinese Meridionale, creando un precedente inusitato per le dispute territoriali. 

I contenziosi territoriali in questa zona si sono così terribilmente moltiplicati a dismisura. Fra quelli più importanti ricordiamo le isole Spratly contese da Filippine, Vietnam, Cina, Malesia, Brunei e Taiwan, le isole Pratas contese da Taiwan e Cina, le isole Paracel contese da Vietnam e Cina, lo Scarborough conteso da Filippine e Cina, e infine le isole Natuna contese da Indonesia e Cina. Una situazione esplosiva che ha registrato il progressivo irrigidimento della Repubblica Popolare Cinese che non ammette alcuna disponibilità a mettere in discussione le sue pretese- La costruzione di basi militari su queste isole ha poi drasticamente peggiorato il quadro già pesantemente deteriorato. 

Non soddisfatta di queste rivendicazioni, la Repubblica Popolare Cinese ha aperto anche un fronte nel Mar  Cinese Orientale, contestando la sovranità delle isole Senkaku amministrate dal Giappone. 

                               

2. Il programma di riarmo giapponese


L'espansionismo della Cina è una realtà incontestabile. La volontà delle autorità politiche cinesi non è nemmeno nascosta, al contrario, si rivendica pubblicamente come diritto imprescindibile l'espansionismo territoriale in atto, in nome della sovranità cinese, e si contesta duramente ogni critica che ne metta in discussione gli interessi egemonici. In questo contesto ogni forma di dialogo e relazione diplomatica viene drasticamente limitata, e diventa praticamente impossibile ogni trattativa che non parta dall'accettazione delle gravose richieste cinesi. Per questi motivi tutti i paesi asiatici minacciati dalla Cina stanno provvedendo a un significativo riarmo, perché la deterrenza è divenuta l'unica risposta efficace in tale contesto. Il Giappone, come altri paesi, è impegnato in questo riarmo, sollevando contemporaneamente anche un dibattito sulla ricerca di un equilibrio accettabile fra le esigenze della sicurezza e i principi pacifisti della carta costituzionale. Al momento attuale sta prevalendo la necessità di garantire la difesa del paese dalle crescenti minacce di aggressioni militari. Ciò è avvenuto anche con modifiche legislative che hanno introdotto il concetto di difesa collettiva (shūdanteki jieiken) con un provvedimento che permette alle forze di autodifesa di intervenire in soccorso degli alleati sotto attacco nemico. Inoltre c'è stato un significativo finanziamento del budget del Ministero della Difesa (Boeishō) che è leggermente cresciuto a partire dal 2013, invertendo un andamento di decrescita durato un decennio. Tuttavia la spesa militare si è comunque mantenuta intorno a 1% circa del prodotto interno lordo, con un aumento annuale intorno al 2% nel recente periodo. Quindi la crescita del riarmo del Giappone non va considerata  quantitativa, bensì qualitativa, basandosi piuttosto su una precisa razionalizzazione delle risorse e dei programmi, con una complessiva riorganizzazione delle forze di autodifesa. 

Vediamo brevemente quali sono le principali novità in questo settore. La Forza di autodifesa terrestre (Rikujō jieitai) sarà ristrutturata e vedrà come novità più importante la formazione di due brigate anfibie, una a Sasebo presso Nagasaki e l''altra a Higashi Chitose in Hokkaidō. Queste brigate anfibie, sviluppate sul modello dei Marines americani, saranno dotate dei velivoli da trasporto convertiplano Bell Boeing V-22 Osprey (dotati di capacità di decollo e atterraggio verticali) e dei veicoli anfibi da sbarco AAV-7. Inoltre saranno create tre divisioni e quattro brigate a elevata mobilità e rapido intervento pronte a reagire immediatamente nelle aree di crisi. Per supplire a tale funzione  avranno i nuovi veicoli Mitsubishi Type 16 Kidōsentōsha (Maneuver Combat Vehicle), un agile blindato simile all'italiano Centauro. La Forza di autodifesa marittima (Kaijō jieitai) avrà un sostanziale potenziamento che porterà all'incremento del numero di unità, in particolare 54 del tipo cacciatorpediniere, di cui 8 saranno lanciamissili antibalistici dotati del sistema Aegis, e 22 sottomarini, fra cui la classe Soryū che è tra le più avanzate al mondo. La Forza di autodifesa aerea (Kōkū jieitai) vedrà l'acquisizione di aerei AWACS, droni Global Hawk, e soprattutto di 42 cacciabombardieri Lockheed Martin F-35A dotati di spiccate caratteristiche per l'attacco. Inoltre proseguirà il programma per lo sviluppo del Mitsubishi X-2, un caccia stealth prodotto dal Giappone che potrebbe essere il futuro caccia intercettore del paese. 

                                             

3. Il Kawaii militarizzato


Questo fervore intorno alle forze di autodifesa ha suscitato una maggiore attenzione e una crescita di interesse per le questioni militari, la difesa e i temi della sicurezza. Se da una parte si sono alzate voci di protesta pe l'apparente riarmo del paese (in realtà inferiore a quanto fatto dai paesi vicini), in tanti hanno compreso l'esigenza di rispondere concretamente alle minacce di un mondo sempre più conflittuale, instabile e violento. Ovviamente ciò ha influenzato in maniera forte il clima culturale, e anche anime e manga. Come vedremo più avanti, queste forme di militarismo hanno un carattere completamente nuovo, e pur elaborando elementi tradizionali, hanno scarso rapporto con il militarismo intriso di ideologia tipico degli anni '30-'40 del secolo scorso e del dopoguerra. Si tratta di fenomeni che spesso rappresentano una parodia del militarismo, ma tuttavia ripercorrono temi che hanno effettivamente un preciso contesto storico che viene potentemente rielaborato. 

Un illuminante esempio di questo genere è rappresentato dalla serie televisiva anime Girls und Panzer (Gāruzu ando Pantsā) del 2012 diretta da Tsutomu Mizushima. In questo anime si narrano le vicende di un gruppo di ragazze , capitanate dalla giovane Miho Nishizumi, impegnate in un campionato scolastico dedicato alla disciplina senshadō (letteralmente “via del carro armato”). Questo sport prevede lo scontro fra squadre dotate di carri armati della Seconda guerra mondiale. La stranezza che associa ragazze fragili ed estremamente graziose ai mezzi militari costituisce il punto di forza dell'anime. Ci sono altri aspetti che confluiscono in questo anime come l'influenza dei videogiochi e il modellismo. Le scene di battaglia sono decisamente ispirate ai tanti videogiochi dedicati alle simulazioni, ma è fondamentale anche l'apporto fornito dal modellismo che crea uno straordinario interesse per i mezzi militari. Bisogna precisare, infatti, che sono state alcune aziende giapponesi, fra cui ricordiamo Bandai, Fujimi, Hasegawa e Tamiya, ad aver contribuito alla storia del modellismo, svolgendo ancora oggi un ruolo importante nel mondo dei model kit. 

Tuttavia ciò che ci interessa di più è l'elemento culturale con l'accostamento del kawaii al mondo militare. Per chiarezza e semplicità chiameremo “kawaii militarizzato” tale tendenza e vedremo come si è  articolata e sviluppata in tempi recenti. Il kawaii è un concetto estetico che permea la società giapponese contemporanea, influenzando le maggiori tendenze della moda, del commercio e dell'arte. L'aggettivo kawaii significa carino, grazioso, con numerose sfaccettature che includono il senso di piccolo, semplice, fragile, innocente e ingenuo, ma anche dolce, infantile e tenero.  Apparentemente la moda del kawaii sembrerebbe inconciliabile con gli aspetti duri e severi del mondo militare. Tuttavia la cultura giapponese non tende a contrapporre considerando incompatibili gli opposti, anzi tende a includerli. Nel caso del kawaii militarizzato assistiamo a una fusione di elementi opposti che creano un incredibile contrasto, ma fornisce anche una attraente stranezza che conquista. Si esibiscono personaggi deboli e fragili dotati di potenti mezzi militari, e ciò lascia estasiati per l'audacia che supera l'impensabile. Ma si afferma anche il potere del kawaii che si impone come forza del bello capace di dominare la tecnica, secondo un principio già noto nella società giapponese, ovvero il wakon yōsai (valori giapponesi e tecnica occidentale). 

Uno splendido esempio di fusione di questi elementi e dispiegamento magnifico del kawaii militarizzato è fornito dalla celebre  vocaloid Miku Hatsune. Il video della canzone Senbozakura (Mille ciliegi) può essere definito, senza temere smentita, il capolavoro del kawaii militarizzato grazie a una sapiente e ricchissima utilizzazione di temi contrapposti e sovrapposti. Cominciando dall'analisi del vestito di Miku Hatsune possiamo ammirare una straordinaria abilità nel riproporre la divisa militare dell'Esercito Imperiale, con un cappello da  ufficiale, abbinata a un kimono viola (murasaki) dalle lunghe maniche (furisode) svolazzanti e con disegni di fiori di ciliegio. La gonna indossata è la tipica minigonna plissettata della divisa scolastica, unita a calze lunghe sopra il ginocchio (nagai kutsushita). Incredibili gli stivali anfibi in stile militare composti con i tradizionali zoccoli geta. Da notare anche i guanti neri che aumentano la severità ed eleganza del vestiario. Questo abito mostra le sovrapposizioni di tre stili precisi: Lo stile militare dell'Esercito Imperiale, lo stile tradizionale giapponese del periodo Edo, e lo stile attuale del Giappone contemporaneo.  Questa estetica viene ripetuta sia nell'ambientazione sia nel testo della canzone. Nella canzone si fa chiaramente riferimento allo stravolgimento dell'impatto della civiltà occidentale accettata dal Giappone, e con sottile ironia si denuncia la situazione di un mondo pronto a dissolversi. Sullo sfondo del paesaggio si vedono pagode, torii, il monte Fuji stilizzato, e una moderna torre a traliccio identificabile come la Tōkyō Tower. Da una parte si indica il nazionalismo, con la bandiera hinomaru sventolata da una bicicletta, come una reazione al rischio di disgregazione, dall'altra parte si esprime la disillusione sulle possibilità di ragazzi e ragazze in guerra. Il pessimismo di Miku Hatsune è cristallino, e descrive il mondo come una festa che in realtà è una gabbia d'acciaio (hagane no ori), lei invita a cantare e danzare, ma soprattutto nel finale è inequivocabile, con l'imperativo ci chiede di sparare furiosamente a raffica (uchimakure). Il finale bellicista di Miku può apparire molto violento, ma ciò che è ancora più provocatorio è la sottile critica all'Articolo 9 della Costituzione sulla rinuncia al diritto di belligeranza, quando dice che il Giappone è una nazione sinceramente contro la guerra (rairai rakuraku hansen kokka). La contraddizione appare evidente per il fatto che il Giappone, contrariamente a quanto affermato, è dotato oggi, come ieri, di potenti forze armate. Questo contrasto risulta ancora più evidente dal contenuto bellico del resto della canzone. Per far svanire ogni tipo di illusione pacifista, Miku ricorre a un verso di estrema leggerezza raccontando mentre pedala la bicicletta che i demoni sono cacciati con un esorcismo dai missili balistici intercontinentali (akuryō taisan ICBM). La verità è che la pace è stata mantenuta durante la Guerra Fredda tramite la deterrenza dell'arsenale nucleare, e l'equilibrio del terrore fra superpotenze. Il Giappone può affermare di essere un paese pacifico, ma il mondo non è assolutamente pacificato, e molte nazioni sono dotate di missili nucleari che potrebbero essere terribilmente impiegati. Quale soluzione suggerisce allora l'imprevedibile Miku a quseta condizione in cui si trova l'umanità? Ebbene, Miku ci indica con veemenza che non vuole suggerire soluzioni, ma denunciare lo stato delle cose, e nel farlo non manca una vena di rassegnazione e fatalismo. Questo è un mondo fluttuante (ukiyo) effimero e passeggero, dove mille ciliegi si dileguano nella notte (senbonzakura yoru ni magire) e nemmeno una voce può raggiungerli (koe mo todokanai). 

La potenza di questa canzone si comprende se si osserva come Senbonzakura sia una straordinaria parodia delle canzoni di guerra del periodo bellico, le quali tentavano di esaltare i valori tradizionali giapponesi, e come sia stato sapientemente riprodotto il clima e l'estetica di quel tempo. In particolare Senbonzakura è l'evidente parodia di Dōki no sakura, non soltanto per la citazione del ciliegio, ma anche per i temi trattati. In Dōki no sakura (I fiori di ciliegio della stessa classe) si esalta il sacrificio dei soldati giapponesi che cadono in battaglia così come i fiori di ciliegio che cadono dagli alberi, Si tratta di un antico simbolismo che paragona il guerriero al fiore di ciliegio per la durata breve, ma piena di splendore, della sua vita. Anche Senbonzakura fa esplicito riferimento al mondo effimero (ukiyo) e alla ricerca di gloria di chi intraprende la carriera militare, tuttavia è assolutamente scettica sul valore di questo sacrificio, tanto da invitare a saltare giù da questo patibolo (dantōdai o tobiorete). Ciononostante i versi finali della canzone invitano a combattere, con lo scopo però di spronare ad affrontare la vita, sebbene sia assurda, crudele e insensata. 

                                                      

4. Il paradigma Kantai Collection


Lo stile del kawaii militarizzato ha conosciuto la sua massima popolarità grazie al successo del videogioco e della serie animata intitolata Kantai Collection. Tuttavia c'è stato un importante precedente che ha definito il genere che unisce belle ragazze e navi da guerra. Si tratta di Arpeggio of Blue Steel, un anime nel quale appare la figura di un avatar umanoide con una propria personalità, una ragazza personificazione di una nave da guerra controllata dalla sua volontà. Kantai Collection riprende questa tipologia ampliando e amplificando l'unificazione fra navi e ragazze, giungendo all'identificazione totale delle unità da combattimento nelle ragazze chiamate kantai musume (ragazze della flotta). L'insolita fusione ha effetti strabilianti con risultati suggestivi nelle scene d'azione dove le ragazze sembrano pattinare sull'acqua del mare. Un aspetto interessante è il trasferimento delle caratteristiche della nave al personaggio umano.

La protagonista Fubuki è un cacciatorpediniere di un nuovo modello che ha gravi problemi di stabilità (come era accaduto nella realtà storica) e si impegnerà duramente per superare questi difetti, e ci riuscirà dopo innumerevoli cadute. Le ragazze hanno un aspetto fisico che rispecchia il dislocamento delle navi, così le corazzate sono prosperose giovani donne, gli incrociatori ragazze adolescenti, e i cacciatorpediniere ragazzine quasi bambine. Le portaerei hanno una elegante tenuta tradizionale da arciere, dotate di arco e faretra, una protezione addominale (dō), e il ponte di volo portato come scudo sull'avambraccio. Abilissime nell'arte del kyūdō (via dell'arco), quando scoccano una freccia  quest'ultima si trasforma in un aereo. La più famosa è Akagi che ha un appetito insaziabile (nella realtà aveva la caratteristica di elevati consumi di combustibile). Ha un aspetto molto femminile con i lunghi capelli neri e le forme prosperose. Fra le navi da battaglia spicca per la sua bellezza la corazzata Kongō dotata di una personalità estroversa. La corazzata Kongō (inizialmente un incrociatore da battaglia poi trasformato) era stata costruita nei cantieri Vickers-Armstrong in Inghilterra,e per questo motivo spesso utilizza espressioni in lingua inglese. Fra i cacciatorpediniere il più stravagante è Shimakaze che è il non plus ultra della Lolita secondo i canoni nipponici graditi agli appassionati del rorikon (Lolita complex). Shimakaze indossa una microgonna inguinale che lascia ampiamente scoperti gli slip a vita alta, ha calze a strisce orizzontali bianche e rosse, una blusa in stile alla marinara, e sulla testa porta due orecchie da coniglietta. L'aspetto minuto e infantile contrasta con il suo vestito provocante, la succinta divisa alla marinara, ma anche con l'audacia e la determinazione del suo carattere. 

La trama è estremamente semplice. Le kantai musume sono impegnate in combattimenti contro una flotta di mostri con sembianze in parte umane, in parte di navi e in parte di creature mostruose degli abissi. Seppure molte battaglie ricordano gli scontri storici realmente avvenuti, per ragioni di politically correct, l'US Navy non appare fra i nemici, ma soprattutto ciò non avviene perché essa non viene più percepita come un avversario. Il presente si sovrappone al passato e ridisegna il quadro semantico delle vicende. Nel dodicesimo e ultimo episodio avviene un ulteriore salto paradigmatico verso la rilettura valoriale del presente e del passato. La missione Operazione MI, ovvero l'attacco alle isole Midway, vede impegnate le portaerei Akagi e Kaga. Durante i giorni precedenti Akagi ha avuto ripetuti incubi in cui vedeva la distruzione sua e della flotta. In effetti ciò sembra avvenire anche nella realtà (così come nella storia), ma all'ultimo istante durante il micidiale bombardamento in picchiata degli aerei nemici interviene Fubuki che con i suoi cannoni li distrugge. Le sorti della battaglia si capovolgono e grazie all'arrivo dei rinforzi la vittoria è assicurata. Si può dire così che attraverso la cultura pop il Giappone abbia ottenuto la sua rivincita.