venerdì 23 maggio 2008

Il kawaii prima del kawaii

Ripropongo il mio paragrafo Il kawaii prima del kawaii pubblicato nel libro Anatomia di Pokémon. Può essere una lettura interessante per chi non ha avuto occasione di procurarsi il volume.

Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.


Il kawaii prima del kawaii
di Cristiano Martorella

Con il termine di cultura kawaii si indica il gusto e l’atteggiamento di una generazione di giovani giapponesi (la fascia d’età si sta allargando sempre più) che si riconoscono in una mancanza di ideologia e preferiscono rifugiarsi in un mondo infantile costituito da moine, atteggiamenti puerili, mode eclettiche e kitsch del vestiario, gadget, tendenze e linguaggi da bambino, cercando di ritardare sempre più la partecipazione al mondo adulto. La parola kawaii significa infatti "carino", ed acquista una connotazione particolare per indicare questo universo giovanile in continuo mutamento. Il fenomeno ha assunto importanza e attenzione quando i sociologi hanno cominciato a scriverne ampiamente, e a caratterizzare con il termine cultura kawaii fenomeni diversi che abbracciavano però una stessa tipologia di giovani. Probabilmente, il successo della definizione di cultura kawaii è attribuibile alla sociologa statunitense Merry White che ne fece un uso molto preciso in alcuni suoi scritti (cfr. Merry White, The Material Child. Coming of Age in Japan and America, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1994).
Questo ideal-tipo è servito ad orientarsi abbastanza bene nel magmatico e sempre mutevole mondo giovanile giapponese, ma più spesso ha offerto problemi di carattere generale quando si cercava di comprendere il comportamento delle diverse generazioni di giapponesi considerate simultaneamente, e non forniva nessun tipo di spiegazione plausibile sulla società giapponese contemporanea complessiva. E ciò contribuiva a tenere separati gli studi antropologici sulla cultura dei consumi e dei mass-media dagli studi sociologici di carattere generale, creando un certo ritardo nella comprensione dei fenomeni ed etichettando come sub-cultura ciò che non rientrava nel modello più ampio e generale della società giapponese.
È possibile parlare del kawaii senza chiuderci in questa prospettiva, senza rinunciare a una spiegazione del fenomeno all’interno dell’intera cultura giapponese? Sicuramente un’analisi di questo genere deve tenere presente due livelli che fanno riferimento al kawaii: 1) sociologico 2) estetico. Infatti è soprattutto grazie al secondo, l’estetico, che viene costruita concretamente la cultura kawaii. Un’idea chiara del livello estetico permette una comprensione (verstehen secondo la terminologia weberiana che qui rispettiamo) delle relazioni e delle azioni dei singoli individui.
Premesso ciò, partiremo dal livello sociologico per mostrare le difficoltà che nascono senza un’opportuna conoscenza del funzionamento dell’aspetto estetico. Cercheremo di superare questa impasse grazie all’introduzione di una proposta di lettura del kawaii a livello estetico.
La cultura del kawaii viene generalmente inserita nel contesto più ampio del concetto di moratoria (in giapponese moratoriamu), ossia il rifiuto di crescere, di entrare a far parte del mondo adulto e il tentativo di cristallizzare l’età infantile a tempo indeterminato. Essa si manifesterebbe come un fenomeno di disimpegno sociale, di rigetto dei valori e dei ruoli sociali (compreso il gender), di rifugio nell’immagine di eterno bambino (cfr. Hoshino Katsumi, Shohi no jinruigaku, Toyo keizai shinposha, Tokyo,1984). Però ci sono alcuni punti di questo modello teorico che non rispondono alla realtà osservata, e c’è da sospettare che ci siano almeno degli aspetti trascurati.
Se la cultura del kawaii corrispondesse al concetto di moratoria, a una contestazione non ideologica al sistema di valori tradizionali della società giapponese, non si capirebbe perché dopo trent’anni di osservazione del fenomeno non si sono riscontrati sensibili cambiamenti nella società stessa. Le generazioni a cui si riferivano i primi studi sono ormai integrate, volenti o nolenti, nel mondo adulto. Ed esse stesse contribuiscono a sostenere e tramandare quei valori apparentemente contestati.
Si dovrebbe pensare che il sistema di valori della società giapponese è talmente forte da piegare ogni tipo di reazione? Ma per dimostrare qualcosa del genere si dovrebbe fare ricorso a spiegazioni aberranti (c’è chi ha provato a farlo, ma questo genere di spiegazioni lascia comunque molto insoddisfatti). Invece è molto più semplice inquadrare il problema in una prospettiva generale che è stata già studiata, quella del conflitto fra generazioni, e approfondire piuttosto l’analisi dei valori tramandati e contestati.
Quando gli studiosi del XIX secolo imbastirono i primi tentativi di teorie per spiegare questi fenomeni, trovarono un supporto molto utile nella raccolta sedimentata e razionalizzata di valori ed emozioni del mito greco. Ciò è talmente significativo che ancora oggi possiamo ricordare il mito di Crono per comprendere la dialettica del conflitto fra generazioni. Il padre di Crono era Urano, padrone dell’universo che per conservare il potere relegava i figli nel Tartaro, il regno degli inferi. Crono si ribellò e con una falce mutilò il padre. Ma egli stesso ebbe un comportamento identico, anzi ancora più brutale, divorando i figli. In pratica sostituì il suo stomaco al Tartaro. Con l’inganno si sottrasse a tale sorte il figlio Zeus che lo vinse e spodestò (cfr. Esiodo, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino, 1998). In parole semplici, Crono non fece altro che uccidere il padre e sostituirsi a lui acquisendone lo stesso ruolo e i medesimi valori. Ciò ci permette di mettere in evidenza come il conflitto fra generazioni comporti l’interiorizzazione dei valori della generazione precedente in quella successiva. La dialettica padre-figlio è stata studiata anche da Georges Balandier che descrive puntualmente i meccanismi di riproduzione sociale, della dinamica dei gruppi, e della strutturazione della società (Georges Balandier, Società e dissenso, Dedalo, Bari, 1977). Questo non significa che le società restino immobili e prive di cambiamenti, ma soltanto che non bisogna farsi ingannare da un conflitto generazionale che è una tappa necessaria dell’organizzazione sociale. Le trasformazioni sociali, spesso grandi, avvengono e investono livelli diversi che riguardano direttamente le strutture sociali (si pensi al quadro descritto da Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974).
Queste premesse e osservazioni ci sono servite per respingere l’idea che la cultura kawaii sia una forma di contestazione che si oppone radicalmente alla cultura giapponese tout court. La nostra tesi sostiene invece che il kawaii non è altro che una interiorizzazione in forme estreme e singolari dei valori giapponesi tradizionali. Se dovessimo accettare la tesi che interpreta la cultura kawaii come antitetica alla cultura tradizionale giapponese, dovremmo paragonare i due sistemi e trovare delle differenze nette e sostanziali. In effetti, esiste un concetto che sembra rappresentare l’antitesi della cultura kawaii, si tratta della cultura del samurai. In tal senso siamo fortunati perché le opere sulla cosiddetta cultura del samurai sono abbondanti, a partire da Bushido, testo chiaro e fondamentale (Nitobe Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998, il testo originale risale però al 1900). Ma è proprio studiando la cultura tradizionale giapponese che non si riescono a trovare antitesi con la cultura kawaii, ma la contrario si scoprono le sue origini e se ne comprendono le motivazioni.
La cultura del samurai fonda la sua etica sull’integrità e l’onore del singolo individuo, tramite la disciplina zen che definisce gli aspetti della vita secondo una dottrina non finalistica e non salvifica. Questo non è un particolare irrilevante, poiché l’etica del samurai non ha nulla in comune con il concetto occidentale di morale. Essa è essenzialmente orientata al soggetto e indifferente. Adesso, riscontriamo che anche la cultura kawaii è orientata al soggetto e indifferente. Come sanno bene gli orientalisti, l’etica del samurai non è nemmeno una morale nel senso occidentale, ma piuttosto una forma estetizzante della vita (cfr. Joseph Campbell, Mitologia orientale, Mondadori, Milano, 1991). Lo stesso samurai paragonava la sua esistenza al fiore di ciliegio, bello ed effimero. E la produzione artistica è profondamente caratterizzata dall’attenzione e sensibilità per le facezie, le piccole cose quasi insignificanti, i particolari (cfr. Sei Shonagon, Note del guanciale, Mondadori, Milano, 1990).
Famosa è l’espressione mono no aware wo shiru (sentire il sentimento delle cose), una sorta di compenetrazione dell’animo nel mondo circostante. Ebbene, è lo stesso principio che permette nella cultura kawaii di far assurgere a massimo valore un gadget, un nastro o qualsiasi altro oggetto futile che viene investito con una connotazione emotiva.
A questo punto siamo arrivati al livello estetico. Chiunque voglia tentare di spiegare l’estetica giapponese deve partire dall’opera ormai fondamentale di Kuki sul sentimento giapponese del grazioso (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, Adelphi, Milano, 1992). Un’analisi accurata ci permette di definire il kawaii come una mutazione, uno spostamento dell’iki (grazia) rispetto alle coordinate fissate da Kuki. Questo non significa che il kawaii non sia in relazione con i sentimenti del bello tradizionali dei giapponesi, anzi ne individua le origini e ne spiega il funzionamento. Tenendo presente lo studio di Kuki, riconosciamo che il kawaii ha in comune con l’iki alcuni punti. Ad esempio, una specie di liberazione (gedatsu) dalla convenzione attraverso il piacere e un’anima disponibile al cambiamento. Rispetto all’iki, c’è uno spostamento verso la vistosità (hade) e soprattutto una vicinanza alla dolcezza (amami), ma come l’iki conserva una relazione con la distinzione (johin). Sembrerebbe che le ultime tendenze delle ragazze di Tokyo confermino questo modello. Infatti è emerso un nuovo gruppo della cultura kawaii che si definisce ego-make. Caratteristica del kawaii sarebbe appunto la ricerca di questa distinzione, dell’essere diversi (e non contro qualcosa o qualcuno).
In conclusione, sembrerebbe che il quadro sia ormai completo. Ma un ultimo caso, abbastanza importante, può essere fornito per concludere questa rilettura della cultura kawaii. Si tratta del teatro Takarazuka (una sua descrizione ci è fornita da Renata Pisu, Alle radici del sole, Sperling & Kupfer, Milano, 2001).
Il Takarazuka è la forma più esplicita della cultura kawaii eppure le sue origini risalgono al 1916 circa. In quell’anno l’imprenditore Kobayashi Ichizo decise di fondare un teatro composto da sole ragazze (rigorosamente vergini, pena l’espulsione) per aumentare l’attrattiva di una piccola cittadina, Takarazuka nella prefettura di Hyogo, poco distante da Osaka. Oggi Takarazuka è diventata un monumento vivente della cultura kawaii caratterizzata da questo concetto estremo di femminilità e innocenza infantile. Il teatro Takarazuka è anche il simbolo, con le sue attrici (adorate soprattutto da un pubblico femminile), di un modello estetico androgino, una indifferenza al gender in nome di un ideale estetico superiore. E questo non dovrebbe meravigliarci considerando l’insistenza sull’identificazione dell’etica giapponese in una forma di estetica onnicomprensiva.
In conclusione, il kawaii non è affatto una sub-cultura, ma una parte integrata e fondamentale della cultura giapponese senza la quale non sarebbe concepibile e costruibile la complessità di quel sistema di valori. Le stesse attrici del Takarazuka ci ricordano quanto il loro essere diverse (johin, distintive) sia una qualità apprezzata che permette di integrarsi perfettamente. Infatti, dopo la breve carriera (l’età è fondamentale) ricevono richieste di matrimonio da importanti personaggi. L’attrice del Takarazuka, così come una volta la geisha, viene considerata una sposa ideale perché conoscitrice delle arti tradizionali (ikebana e chado) e della disciplina. Si tratta quindi di una prospettiva ben diversa che ci faceva immaginare la cultura kawaii come marginale e in opposizione alla società. Anche le altre aidoru, ma anche le ragazze più semplici (come le commesse di importanti locali, chiamate karisuma, carisma, che dettano le tendenze), sono una realtà propositiva e altamente produttiva. Una società consumistica e altamente sviluppata sotto il profilo tecnologico come quella giapponese, ha bisogno delle risorse della cultura kawaii per promuovere e incentivare lo sviluppo spasmodico del sistema.
Piaccia o non piaccia, la cultura kawaii è altamente integrata nella società giapponese ed è all’origine della produzione creativa che ha permesso lo sviluppo di una società che ha conosciuto un benessere come nessun’altra per trent’anni ininterrotti. Se quel ciclo sta conoscendo attualmente un rallentamento, è da auspicare, come indicato dall’economista Ohmae Kenichi (Omae Ken'ichi) , che si trovino le risorse creative e l’entusiasmo nelle nuove generazioni, le stesse che sono portatrici della cultura kawaii (cfr. Ohmae Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, pp.350-351).



Paragrafo del libro Anatomia di Pokémon. Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.

venerdì 16 maggio 2008

Karisuma, le ragazze carismatiche

Ripropongo il mio articolo Karisuma pubblicato dal sito Nipponico.com.

Karisuma. Le ragazze carismatiche del business
di Cristiano Martorella

20 agosto 2003. Con il termine karisuma (carisma) si indicano le commesse dei negozi alla moda che dettano le tendenze consigliano e influenzando le clienti. Il termine "commesse" è limitativo, infatti le karisuma sono anche modelle fungendo da indossatrici per il vestiario e gli accessori, e dotate di discrete capacità artistiche intrattengono la clientela danzando. Inoltre forniscono un servizio di consulenza dettagliato introducendo il cliente alla scoperta delle mode più trendy e spiegando a loro modo le novità. Insomma, si potrebbero definire delle professioniste del look globale che non si fermano alla consueta commercializzazione dei prodotti, ma integrano spettacolo, servizi, informazioni e pubblicità.
Il termine giapponese karisuma è un gairaigo (parola d’origine straniera) preso dall’inglese carisma, a sua volta dal tardo latino carisma e adattamento del greco kharisma derivato di kharis (grazia). In conclusione l’origine etimologica indica qualcosa che affascina.
Il primo in Italia a scrivere delle ragazza karisuma fu Leonardo Martinelli che in un articolo (1) molto dettagliato fornì una descrizione che spesso rompeva con i consueti stereotipi della gioventù giapponese. Infatti, l’intervista con Usuki Kunie del centro Design-Festa! di Harajuku forniva un’osservazione realistica e disincantata delle mode giovanili nipponiche.

"Siamo a Harajuku, a breve distanza da Shibuya. […] Qui sono state scattate alcune delle foto dell’ormai storico catalogo Benetton curato da Oliviero Toscani sui giovani di Tokyo. «L’ho visto», sottolinea la signora [Usuki]. «Le foto sono interessanti, ma danno un’immagine superficiale della Tokyo giovane. Gli europei, sfogliandolo, vedono i look aggressivi e stravaganti di tanti ragazzi e credono forse a una generazione ribelle. E invece non è vero: è solo un look e per di più temporaneo. Passerà qualche anno e diventeranno persone "normali" come gli altri.» […]" (2)

Riguardo alle karisuma, Leonardo Martinelli rilevava lo sforzo di creare uno stile personale detto ego-make capace di adattarsi al singolo individuo caratterizzandolo. Perciò uno stile non ripetitivo ma creativo. Quindi le karisuma non sono solo commesse, piuttosto sono stiliste capaci di fiutare le tendenze e gli umori anticipando le mode. Una rincorsa alla personalizzazione dell’abbigliamento.
Per quanto ci riguarda, possiamo aggiungere un’analisi sociologica delle karisuma nel quadro dei nostri studi sulla cultura giovanile giapponese. Intendiamo perciò mettere in evidenza tre aspetti: 1) il legame fra cultura e commercio; 2) il concetto estetico di grazia; 3) l’organizzazione del lavoro. Questi tre aspetti sono subordinati allo sviluppo della società dei servizi e dell’informazione che in Giappone sta vedendo il superamento del modello capitalistico fondato sulla proprietà materiale dei mezzi di produzione. Si tratta di un superamento che nella sua transizione è percepito come crisi economica. Il processo di trasformazione del lavoro comporta una elaborazione intellettuale costituita dai servizi come appunto le creazioni della moda (fashion). Gli stilisti non vendono vestiti ma sogni da indossare. Qui si interseca l’aspettativa emotiva, fondata culturalmente da una condivisione sociale, con il commercio. La misurazione del valore dei beni non si può più fondare sul lavoro, metro del sistema industriale, ma viene sostituito da un valore globale fissato dal sistema sociale fortemente influenzato dai mezzi di comunicazione. Se già in passato commercio e cultura erano strettamente legati, adesso sono fusi in un’unica identità. Non si vendono soltanto merci ma idee e creazioni. L’economia diviene cultural-dipendente, ossia estremamente collegata alla cultura. Nel XXI secolo, a dispetto delle teorie sulla globalizzazione, è la diversificazione e il pluralismo a garantire il successo commerciale. Le karisuma sono così le profetesse dell’economia culturale di questo secolo.
Piuttosto che leggere questi cambiamenti con le categorie aberranti della storiografia di Michel Foucault che vedrebbero l’uomo moderno asservito in un sistema sociale autoritario e liberticida (3), bisogna considerare come l’uomo fuori dalla società perda il senso della sua identità. La società, oltre a imporre delle regole, permette all’uomo di trovare i mezzi di espressione e sussistenza che favoriscono la sua realizzazione come persona. La società stessa è lo spazio vitale dove l’uomo si esprime. Secondo Foucault il concetto di uomo è un’invenzione recente che appartiene alla società moderna. Ma riportare continuamente l’individuo alle determinazioni sociali eliminando la singolarità e descrivendolo tramite negazioni e opposizioni significa ignorare la natura irriducibile dell’individuo. Ciò non è corretto in un ambito sociologico obiettivo che consideri l’individuo come un protagonista e non come una vittima impotente del sistema sociale. Perciò le interpretazioni della cultura giovanile che si rifanno a Foucault peccano di un pericoloso riduzionismo presentando un quadro aberrante della società nipponica considerata come oppressiva, costrittiva e autoritaria (4).
Le karisuma non sarebbero perciò dei soldatini delle aziende asservite al sistema, piuttosto persone capaci di trovare nuove risorse per il commercio proponendo qualcosa che nasce dalla loro fantasia. A ciò si aggiunge l’influenza del concetto giapponese di grazia (iki) già analizzato dal filosofo Kuki Shuzo. Egli ritiene che l’essere grazioso sia un modo di vivere (ikikata) peculiare dei giapponesi.

"L’iki […] è seduzione che ad opera del destino ha raggiunto la «rinuncia» e vive (ikiru) nella libertà dell’«energia spirituale». Ma solo quella nazione che serbi uno sguardo lucido sul destino e sia animata da una struggente aspirazione alla libertà spirituale può far assumere alla seduzione il modo iki" (5)

L’iki è seduzione, spirito vitale e distacco. Queste stesse caratteristiche si ritrovano nell’ideale di graziosità contemporaneo che molti autori hanno chiamato "ideologia kawaii". Le karisuma riprendono infatti questi elementi. Esse sono vitali sprizzando energia, mostrano distacco senza attaccarsi a uno stile preciso ma modulando una fusione di gusti, esprimono fascino e seduzione con un pizzico di erotismo. Ma l’interpretazione della cosiddetta cultura kawaii, di cui le karisuma sono protagoniste, ha peccato di superficialità descrivendo la cultura giovanile come un movimento ribelle e contestatario. Ciò è assolutamente fuorviante e costituisce una banalizzazione che mostra l’imprecisione di alcuni studiosi nel condurre le loro ricerche. Ciò che è diverso non è necessariamente opposto e contrario a qualcosa. Ciò che è diverso non è perciò "perverso".
Le karisuma fanno parte del sistema commerciale giapponese, non sono però da considerare asservite e succubi dell’organizzazione lavorativa. In realtà stanno contribuendo, anche se inconsapevolmente, alla costruzione di un’alternativa economica creando esse stesse una nuova fruizione dei beni e dei servizi (6).


Note

1. Cfr. Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001, pp.50-78.
2. Ibidem, pp.61-65.
3. Franco Crespi ha puntualmente criticato Michel Foucault per i suoi eccessi. Cfr. Crespi, Franco, Foucault o il rifiuto della determinazione, in "Aut Aut", n.170/171, 1979, pp.104-108. Fra le numerose opere di Michel Foucault si veda: Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1977; La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1978.
4. Un’analisi seria del potere politico e dei rapporti con i media è stata condotta da Marco Del Bene. Cfr. Del Bene, Marco, Società, potere e mezzi di comunicazione di massa in Giappone, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002. Il Giappone ha conosciuto le vessazioni del bieco militarismo del Novecento, così come altri paesi hanno subito le angherie del totalitarismo fascista e comunista. Però questo periodo storico non può essere esteso a tutta la società e a ogni epoca.
5. Cfr. Kuki, Shuzo, La struttura dell’iki. Adelphi, Milano, 1992, pp.134-135.
6. Vorremmo ricordare, prima di concludere, come siamo stati fra i primi in Italia a segnalare e discutere la novità costituita dalle mode giapponesi. Cfr. Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n.3, ottobre 1996.


Bibliografia

Del Bene, Marco, Società, potere e mezzi di comunicazione di massa in Giappone, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Hoshino, Katsumi e Okamoto, Keiichi e Inamasu, Tatsuo, Kigoka shakai no shoni, Horuto Saundasu Japan, Tokyo, 1985.
Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n.3, ottobre 1996.
Murakami, Ryu, Ano kane de nani ga kaeta ka. Bubble Fantasy. Shogakukan, Tokyo, 1999.
Ono, Yoshiyasu, Keiki to keizai seikaku, Iwanami shoten, Tokyo, 1998.
Ravasio, Manuela, New Tokyo life style, in "Gulliver", n.3, anno X, marzo 2002.
Ueda, Atsushi. Electric Geisha. Tra cultura pop e tradizione in Giappone, Feltrinelli, Milano, 1996.

giovedì 15 maggio 2008

Wakamono

Ripropongo il mio articolo Wakamono pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003, pp.67-71.


Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese
di Cristiano Martorella

Dopo alcuni interventi che hanno suscitato roventi polemiche, torniamo sull’argomento della cultura giovanile giapponese per occuparcene in modo più approfondito e dettagliato. A dispetto della presunta occidentalizzazione della gioventù nipponica, soltanto recentemente si è scoperto quanto siano originali e creativi i giovani giapponesi (wakamono significa appunto giovane). Invece di considerare il fenomeno per quello che realmente è, ossia la normale ricerca di un’identità da parte dei giovani, molti opinionisti e studiosi hanno cominciato a descrivere la cultura giovanile giapponese con termini inquietanti e appoggiandosi alla documentazione inattendibile della stampa scandalistica. L’immagine decadente della gioventù giapponese si diffuse così rapidamente, e senza controllo, da divenire un luogo comune anche della stampa che si definisce scientifica. Ed è questo un caso molto interessante da studiare, per capire i reali meccanismi dell’informazione mass-mediologica. Fra i tanti articoli italiani spicca in questo senso l’intervento di Michele Scozzai.

"Collezionano biancheria femminile usata […] e divorano fumetti manga, storie d’amore, di sesso e di violenza disegnate con eccezionale realismo. Comunicano via computer, si drogano di immagini (da quelle innocenti di Goldrake o Lupin III alla più spinta delle pellicole pornografiche) e delle quattro mura del piccolo monolocale dove vivono hanno fatto i confini del loro mondo. Eccoli gli otaku, un esercito di giapponesi stanchi, ribelli, figli del consumismo, maniaci di una cybercultura masturbatoria." [Michele Scozzai, La strana tribù del Giappone, in "Focus", n.95 settembre 2000, p.66]

La correlazione fra gioventù contemporanea giapponese e sesso, fumetti, masturbazione e prostituzione è ormai una costante in tutte le pubblicazioni, anche scientifiche, sull’argomento. Ma indagini sociologiche approfondite e serie che forniscano dati accertabili e metodi della ricerca non sono mai state pubblicate. E perfino in Giappone, le ipotesi di sociologi come Okonogi non sono andate oltre le supposizioni e le proposte di interpretazione dei fenomeni (cfr. Keigo Okonogi, Moratoriamu ningen no jidai, Chuo Koron Sha, Tokyo 1981). Al contrario, c’è stato chi ha puntato l’attenzione sulla crescente disinformazione intorno al Giappone contemporaneo.

"Negli ultimi anni il Giappone è tornato a stupire il mondo occidentale, ma questa volta dando l’impressione, ormai generalizzata, di un paese in forte crisi, non solo economica, ma di identità. Confermando, secondo alcuni, le tesi che vedevano nel Giappone un paese solo apparentemente potente, ma essenzialmente fragile, e nei giapponesi un popolo senza più identità e motivazioni diffuse e credibili. Alcuni fatti calamitosi […] hanno contribuito a rafforzare l’idea di un Giappone fragile, e nello stesso tempo di un luogo inquietante, una sorta di laboratorio della postmodernità e delle sue crepe. A fronte di queste premesse, emergeva con chiarezza, affrontando l’oggetto "otaku", di valutare il peso e l’influenza, sulla nostra indagine, di queste immagini distorte, immagini e suggestioni di cui non potremo in ogni caso liberarci fino a quando non avremo, per il Giappone, un interesse eterodiretto." [Massimiliano Griner e Rosa Isabella Fùrnari, Otaku. I giovani perduti del Sol Levante, Roma, Castelvecchi, 1999, p.17]

Le parole giuste e corrette di Griner e Fùrnari non hanno però avuto ascolto. Così sono continuati i resoconti pittoreschi che fornivano immagini sempre più distorte della gioventù giapponese. L’argomento coinvolgeva testate giornalistiche importanti e di ampia diffusione. Il caso interessava perfino la rivista "L’Espresso" che vi dedicava un reportage ovviamente con i consueti toni catastrofici.

"E' un problema che sta assumendo proporzioni sempre più allarmanti, al punto che un istituto di ricerche fra i più quotati, su incarico del governo, ha svolto un’indagine approfondita sull’estensione e sulle probabili cause del fenomeno che, in giapponese, si chiama "hikikomori" e che significa "ritiro". Ne risulta che sul milione di giovani che hanno scelto la reclusione, l’80 per cento sono maschi, che il 41 per cento trascorre in isolamento assoluto o parziale - rifiutando, per esempio, di parlare o di aver qualsiasi contatto sociale - un periodo che va dai sei mesi ai dieci anni e più, che alcuni (ma non è stata accertata la percentuale) soffrono di depressione, di agorafobia e di schizofrenia, mentre altri, forse la maggioranza, non presentano nessun sintomo evidente di disturbi neurologici o psichiatrici. Quanto alle cause del "hikikomori", si avanzano spiegazioni sociologiche e psicologiche di ogni genere, ma mai, concordano gli esperti, si sarebbe immaginato che il complesso di Peter Pan, largamente diffuso negli anni Ottanta, e che si manifestava con il rifiuto degli adolescenti di diventare adulti, si sarebbe evoluto fino ad assumere questa forma estrema di auto-reclusione." [Renata Pisu, Samurai robot, in "L’Espresso, n.29 anno XLVIII, 18 luglio 2002, p.115]

Si può osservare come non venga fornito alcun nome circa l’istituto di ricerche, gli studiosi e gli psicologi che avrebbero condotto questo studio, rendendo praticamente privo di valore scientifico e di credibilità l’articolo e i dati presentati. Se non è possibile una verifica delle fonti, viene vanificata ogni correttezza e precisione delle ricerche. Ma l’interesse della giornalista era rivolto a colpire il lettore con un’immagine impressionante della gioventù giapponese. E basta poco per trovare le presunte cause della degenerazione della gioventù: l’eccessivo sviluppo tecnologico.

"In Giappone è opinione diffusa che se non ci fossero a disposizione tutti questi marchingegni, i ragazzi non se ne starebbero rinchiusi da soli, cullandosi nella convinzione che la loro interfaccia è l’universo intero, che la tecnologia è il loro autentico sistema nervoso al quale sono collegati mediante un complesso di apparati. Secondo la maggior parte degli psicologi che si interrogano - assieme a sociologi e cibernetici - sulle cause del "hikikomori", si è andata creando una simbiosi totale tra corpo e meccanismi elettronici che ha portato a una forma inedita di autismo: l’autismo tecnologico." [Ibidem]

Non è affatto vero che in Giappone sarebbe diffusa l’opinione che la tecnologia travierebbe i giovani. Soltanto qualche esaltato luddista può sostenere che la macchina minaccia l’uomo. Piuttosto è la perdita del senso della vita umana che rende distorto il rapporto con la tecnologia, così come indicava Martin Heidegger (cfr. Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976). Gli studiosi giapponesi ritengono invece che la cultura nipponica abbia assunto la tecnologia occidentale adattandola alla propria storia e tradizione. Questa è la posizione assunta anche da Atsushi Ueda che ribadisce l’importanza della specificità culturale giapponese (cfr. Atsushi Ueda, Electric Geisha. Tra cultura pop e tradizione in Giappone, Feltrinelli, Milano1996). L’interpretazione dell’impatto della tecnologia sulle giovani generazioni giapponesi non è affatto univoca come vorrebbero farci credere i giornalisti. L’economista Ken’ichi Omae suggerisce le possibilità di queste nuove generazioni all’interno di un’economia liberista (il modello economico che si è affermato a livello planetario).

"La generazione di "Shonen Jump", che oggi è tra i trenta e i quaranta anni, è fondamentalmente diversa da qualsiasi generazione precedente ("Shonen Jump" vendeva 6 milioni di copie alla settimana. Questa generazione è nota per la sua incapacità di pensare con la stessa logicità e consequenzialità della generazione immediatamente precedente: idee e pensieri saltano da una scena all’altra, senza transizioni, come succede ai giovani occidentali cresciuti davanti a MTV). È una generazione etichettata come "più debole". Si dice che coloro che ne fanno parte non abbiano la stessa resistenza delle generazioni precedenti, non avendo dovuto attraversare le stesse difficoltà dei genitori e dei nonni. E non hanno neanche la stessa fantasia e la stessa motivazione della generazione successiva, quella dei "ragazzi Nintendo". Sono una generazione perduta, e incarnano uno dei motivi alla base del ristagno dell’economia giapponese, rappresentando la porzione più consistente della popolazione attiva. Al contrario i "ragazzi Nintendo" della generazione successiva, oggi tra i venti e trent’anni, hanno molte più speranze. I giochi di ruolo (in sigla RPG) con cui sono cresciuti li hanno plasmati in modo inconfondibile. Tentano tutte le strade possibili; sono flessibili e molto più creativi di qualsiasi generazione precedente. Il loro problema è uno solo: quando si trovano in difficoltà reagiscono come se la vita fosse un gioco elettronico, cioè premendo il tasto "Reset". Cercano un nuovo lavoro, una nuova città, una nuova carriera. "Fine partita. Ricomincia". Sono pieni di immaginazione ed entusiasmo per il tipo di azione in cui "si spara senza mirare". E proprio queste apparenti carenze li rendono molto più efficaci, come cittadini del nuovo continente." [Kenichi Ohmae (Ken'ichi Omae), Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell’era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma 2001, pp.350-351]

A questo punto risulta interessante fare un passo indietro e chiedersi il perché di tanta attenzione nei confronti della gioventù giapponese da parte della stampa italiana. Soprattutto è sorprendente la rappresentazione pittoresca dei caratteri mostruosi. Ed è questa mostruosità, che potremmo definire con il termine freak, a colpire l’immaginazione. Il mostro, il diverso è il tema che emerge prepotentemente.
Ma questo topos che i romantici avevano ben studiato (si pensi alla creatura di Mary Shelley e al gobbo di Victor Hugo) ha aspetti più profondi di quelli maldestramente evidenziati dai giornalisti. I romantici ci hanno insegnato che siamo noi a creare i mostri, a isolarli rendendoli asociali, separati e diversi. Autori come Edogawa Ranpo hanno messo in luce in quale modo il mostro tragga la sua forza da una società borghese corrotta (con altri toni vi era riuscito anche Luigi Pirandello). I mostri sono indispensabili in una società razionalizzante e burocratica che occulta continuamente la vera natura umana. Il mostro è il condensato di tutto ciò che è incomprensibile, istintivo, vitale e soprattutto libero. Il mostro soffre nell’isolamento in cui è gettato dal consorzio umano che stabilisce a priori i ruoli e le mansioni degli individui. E non può far altro che esprimere la sua identità e diversità tramite la distruzione della società che l’ha condannato. In ogni caso il mostro sarà sempre vincente perché avrà affermato la sua identità al di sopra dell’omologazione comunitaria.
Per quanto riguarda la gioventù giapponese, è completamente mancata un’indagine sociologica seria che valutasse e ponderasse le istanze dei giovani. Non si è andati oltre la pittoresca descrizione della mostruosità presunta. Paradossalmente i manga ritraggono la realtà giovanile giapponese meglio dei malsani saggi sociologici che si stanno pubblicando. L’unico modo per comprendere le kawaikochan (le graziose ragazze giapponesi) è avvicinarsi ai loro sentimenti, e i manga sono capaci di ciò, molto meglio delle fredde tassonomie e delle false ricostruzioni storiche. Ricordiamoci cosa ci accomuna tutti, noi e i giapponesi: siamo esseri umani. I desideri, le aspirazioni, le speranze e le illusioni fanno parte del nostro animo. Sono i sentimenti che motivano i comportamenti umani, e non certo le dogmatiche e schematiche definizioni di una supposta economia dello scambio. Le kawaikochan sono mosse da desideri che, seppure nella loro ingenuità, hanno dignità e ragione di rispetto. L’amicizia come valore, il piacere come arricchimento delle esperienze, il dolore come conoscenza della realtà, la consapevolezza di poter sbagliare e illudersi. Se ci fossimo fermati a riflettere sulle emozioni delle kawaikochan avremmo veramente compreso il loro mondo invece di fornire una banale rappresentazione viziata da un cumulo di assurdi stereotipi.



Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003, pp.67-71.

mercoledì 14 maggio 2008

Gothic Lolita

Mercoledì 20 giugno 2007, alle ore 21.00, sono stato intervistato da Andrea Materia e Mario Bellina, conduttori del programma "Versione Beta, in onda su Radio 2. L'argomento era il fenomeno culturale delle Gothic Lolita. Si è discusso dei temi trattati nel mio articolo sulle Gothic Lolita pubblicato dal sito Nipponico.com. Numerosi gli ospiti, o meglio, le ospiti che hanno fornito un quadro interessante della creatività femminile. Ripropongo il mio articolo sul tema qui di seguito.



Gothic Lolita
Le adolescenti fanno paura
di Cristiano Martorella

22 gennaio 2005. Con il termine Gothic Lolita, in giapponese Goshikku Rorita, si indica una tipologia di ragazze giapponesi alla moda che fanno tendenza con un abbigliamento neoromantico e un po’ kitsch. L’espressione è stata coniata usando vocaboli stranieri già esistenti, Gothic e Lolita (1), e uniti insieme per assumere un valore nuovo e indicare qualcosa in particolare appartenente alla cultura giovanile giapponese. Infatti le mode della gioventù giapponese sono tante ed è un divertimento crearne sempre nuove. Così è bello ciò che è vario. Esistono già diverse tipologie di ragazze giapponesi in cui si inseriscono le Gothic Lolita (Goshikku Rorita). Ci sono le kogal (kogyaru), termine generico con cui si indicano le ragazze con atteggiamento puerile e volutamente lezioso che trascorrono le giornate dedicandole al divertimento e allo shopping. Poi ci sono le trasgressive ganguro che esibiscono un’abbronzatura scurissima e un trucco contrastante chiaro e pesante. Mentre le ganjiro, anche dette shirogyaru, si mettono in mostra con una pelle chiarissima e un aspetto innocente che è più un vezzo piuttosto che un comportamento spontaneo. Tanto che fu in voga anche l’espressione burikko per indicare una ragazza che finge ingenuità. Viceversa le bodicon (abbreviazione e contrazione di body conscious) vestono in modo estremamente sexy e provocante. Le Gothic Lolita riprendono certi stilemi delle loro coetanee e ne amplificano alcuni aspetti. Sicuramente il contributo della cultura otaku è qui altissimo. Il riferimento ai personaggi dei manga e degli anime è esplicito. Un’autrice di manga che ha contribuito moltissimo a sostenere questa moda, tramite i personaggi da lei disegnati, è Yazawa Ai. L’abbigliamento originale di molte protagoniste dei suoi manga sono un buon modello per le Gothic Lolita. Nemmeno può essere dimenticato il gruppo delle Clamp, autrici di fumetti per ragazze (shojo manga) che tengono in grande considerazione l’abbigliamento e la moda. Inoltre non va dimenticata la produzione di manga hentai e di videogiochi bishoujo dove la figura della Lolita è onnipresente divenendo un’icona e un modello culturale. Basta ricordare il successo dei fumetti di U-Jin e Utatane Hiroyuki, e in tempi più recenti, il lavoro di Carnelian, autrice dell’anime e del bishoujo game intitolato Yami to boshi to hon no tabibito. Questo è il contributo fornito dalla cultura otaku che possiamo riscontrare. Quali sono però le vere intenzioni delle Gothic Lolita nascoste dietro il vestito e la maschera così costruita? In effetti la questione è complessa. Le Gothic Lolita non sono e non aspirano a divenire un gruppo rivoluzionario. La saggistica occidentale ha enfatizzato in modo eccessivo le mode e le tendenze della gioventù giapponese. Spesso, leggendo questi saggi, si ha l’impressione che la gioventù sia in lotta contro la cultura tradizionale giapponese. Vestirsi in una maniera vistosa e trasgressiva non significa necessariamente opporsi alla società e ai modelli culturali dominanti (2). Per fortuna giornalisti intelligenti come Leonardo Martinelli hanno messo in evidenza l’inconsistenza della contestazione dei giovani ribelli giapponesi (3). Ribelli solo nell’abbigliamento. Le Gothic Lolita non vogliono la rivoluzione, semplicemente vogliono divertirsi. Viceversa la cultura giovanile giapponese, anche negli aspetti commerciali della cultura pop, è tuttavia entrata involontariamente in collisione con le trasformazioni sociali del XXI secolo, alimentando uno scontro che in effetti non era cercato. In realtà la gioventù subisce un’aggressione di una tale intensità che ogni compromesso appare irrealizzabile. Il mondo e la cultura otaku sono diventati un movimento eversivo, oppure appaiono così, a causa della fortissima repressione operata sui giovani dalle istituzioni e dal mercato del lavoro imposto a discapito dei diritti civili. Paradossalmente le democrazie attuali tutelano il libero mercato ma non difendono la libertà dei cittadini eliminando le regole che proteggono i lavoratori (questo processo è generalmente chiamato deregulation). Come nel resto del mondo, anche in Giappone la situazione del mercato del lavoro è gravissima. La situazione è peggiorata anche a causa dell’occultamento della realtà operato dai mass media e dalle istituzioni che preferiscono incolpare fumetti e videogiochi del disagio sociale esistente. Si è addirittura inventata la sindrome dell’hikikomori (segregato), amplificando i vecchi studi sulle devianze degli otaku, per dare un’apparenza di scientificità alle vecchie opinioni sulla degenerazione della cultura giovanile. Si può dire però, senza difficoltà alcuna, che la questione hikikomori è stata semplicemente escogitata dai media e dalle istituzioni per indicare nei giovani le colpe da imputare agli adulti. Dalle ricerche che abbiamo condotto sul campo, pubblicate in libri e articoli, è emerso che il lavoro precario (freeter, in giapponese furitaa), introdotto anche in Giappone, è l’autentico responsabile dei disagi sociali che invece si imputano ad anime e manga, videogiochi e internet. La dimostrazione di quanto affermato è nell'inesistenza di studi sulla fruizione dei media in Giappone. Nessuno ha mai studiato la camera di un adolescente, nessuno ha mai condotto ricerche sulla vita degli adolescenti. Tutti invece hanno scritto che gli adolescenti si chiudevano in una stanza per dedicarsi ai loro hobby trascurando la vita sociale. Ebbene, tutte queste affermazioni si basano sul vuoto totale, una completa mancanza di ricerche. Nessuno ha mai condotto ricerche sulla fruizione dei media in Giappone, tutti invece hanno scritto e condannato un mondo paranoico che esisteva soltanto nelle loro teste. Ancora in molti credono che da qualche parte esistano dei libri che descrivono e studiano la fruizione dei media e la vita dei giovani giapponesi. Ricerche approfondite non esistono, non sono mai state condotte perché quello che interessava era inventarsi delle giustificazioni per il degrado sociale in cui sono state gettate le nuove generazioni private dell'assistenza e dei benefici di cui godevano le vecchie generazioni. Sulla psicopatia dei media, definita come sindrome di hikikomori (segregato), la rivista "Psicologia contemporanea" ha dedicato un’inchiesta (4). L’articolo è imbarazzante e approssimativo. Ci si è limitati a ripetere opinioni e luoghi comuni raccolti in internet, e a citare un film. Ma i personaggi dei film non sono persone reali. Invece di condurre ricerche sul campo e osservazioni su persone reali ci si è soffermati a un film, alla fiction che è per definizione una finzione. Ritorniamo però alla definizione di hikikomori. L’hikikomori sarebbe una persona che si chiude in camera per dedicarsi ai videogiochi e alla navigazione in internet troncando le relazioni sociali con gli altri. Questa definizione è già sbagliata e contraddittoria. Infatti i mezzi di comunicazione usati dagli hikikomori aumentano le possibilità di comunicazione invece di diminuirle. Inoltre non si forniscono spiegazioni plausibili sulle cause delle interruzioni di certe relazioni interpersonali. Il sospetto è che i media non siano una causa della patologia, piuttosto un mezzo su cui si concentrano le accuse per distrarre dai veri problemi. Ancora più paradossale è il fatto che i media incolpano se stessi per un fenomeno complesso e incomprensibile, come se soffrissero di una sindrome di onnipotenza. Forse è questa l’autentica psicopatologia: credere che la realtà sia soltanto quella sotto l’obiettivo della telecamera. In questo caso la malattia assume aspetti molto più estesi e articolati. Non si tratta di un fenomeno ristretto ai giovani giapponesi. Anche le Gothic Lolita possono sembrare strane, con il loro atteggiamento inquietante che esibisce ingenuità e disinibizione sessuale, non smettono di suscitare perplessità. Così l’idea sbagliata che considera una generazione di giovani come sbandati e asociali ritorna prepotentemente. Intanto lo stile delle Gothic Lolita fa proseliti. La cantante Gwen Stefani con il videoclip "What you waiting for?" furoreggiava alla fine del 2004. Nel videoclip c’erano ragazze giapponesi in stile tipicamente Gothic Lolita, e la parodia di Alice nel paese delle meraviglie era un forte riferimento alla cultura kawaii. Nel frattempo accade anche qualcosa di inaspettato. Le ragazze giapponesi sono cresciute e hanno incominciato a esprimere le loro opinioni denunciando le storture della società degli adulti. La situazione è ribaltata, così sono gli adulti messi sotto accusa. In questo senso, due casi clamorosi sono stati i libri di Kanehara Hitomi e Iijima Ai. Kanehara Hitomi ha vinto il Premio Akutagawa con il libro Hebi ni piasu (Piercing al serpente) che ha ottenuto un grande successo fra il lettori (5). Kanehara Hitomi ha scandalizzato quanto incantato per l’audacia dei temi trattati, rivedendo i concetti di corpo, personalità e relazione umana. Ella, come tanti giovani giapponesi, è insofferente nei confronti dei soliti cliché che costringono la vita in uno stampino predefinito. I giovani stanno cercando di stabilire rapporti umani più profondi, anche a costo di essere estremi e anticonformisti, e sono pure disposti a rischiare, magari fallire. In fondo nella cultura giapponese, come ci ricorda Ivan Morris (6), la vera sconfitta non è la perdita sul campo di battaglia ma la rinuncia a combattere. Questa è un’autentica affermazione di valori, nuovi valori. Non è nemmeno detto che siano in opposizione ai valori tradizionali giapponesi, come abbiamo appena visto. Siamo ben lontani dal vuoto di valori paventato dagli psicologi frettolosi. Iijima Ai, celebre conduttrice televisiva, ha scandalizzato con la sua autobiografia intitolata Platonic Sex (7). Ella individua le questioni cruciali e scottanti dei rapporti fra giovani e adulti, denunciando i soprusi e tutte le forme di sfruttamento a cui sono sottoposte le nuove generazioni. In nome dell’educazione si subisce ogni tipo di sopruso, si patiscono le violenze di continui e assurdi divieti. Così si finisce per trasgredire cercando di affermare la propria esistenza al di sopra delle proibizioni che non considerano la complessità dell’esistenza umana. Ciò che sorprende è la forza morale sprigionata da Iijima Ai con tanta semplicità e ingenuità. Mai vittimismo nonostante l’evidenza delle ingiustizie. Soltanto coraggio e voglia di affrontare la vita. Ecco perché Platonic Sex è un best-seller adorato da milioni di adolescenti, e resta purtroppo ancora incompreso dagli adulti.
Questi sono soltanto due esempi di un mondo che sta emergendo. Le ragazze giapponesi hanno sempre più voglia di far sentire le proprie idee e si esprimono attraverso tutti i mezzi della società contemporanea: la moda, la televisione, la stampa, i fumetti, internet e i videogiochi.
Un aspetto delle vicende della gioventù giapponese che colpisce lo studioso più di ogni cosa, è lo stato disastroso e lacunoso della ricerca scientifica. La sociologia è una scienza che dovrebbe comprendere l’agire umano nelle sue motivazioni (8). Invece assistiamo a manifestazioni palesi di dilettantismo e superficialità. Si usano ancora le categorie obsolete della devianza giovanile per spiegare fenomeni molto più complessi e articolati. Il rischio è che l’incomprensione si possa poi tramutare in scontro. Allora controllare le trasgressive Gothic Lolita non sarebbe affatto semplice.


Note
1. Lolita è il celebre personaggio dell’omonimo romanzo scandaloso e pruriginoso di Vladimir Nabokov, trasposto in film nel 1962 dal regista Stanley Kubrick. Il romanzo Lolita del 1955 è stato riportato al successo da un’iniziativa del quotidiano "La Repubblica" che lo accludeva al giornale nell’ultima settimana del mese di maggio 2002. Lolita è il ventesimo volume della collana "La biblioteca di Repubblica".
2. Abbiamo duramente contestato le tesi contenute nel volume La bambola e il robottone, senza però ottenere risposte plausibili, al contrario ricevendo soltanto accuse inconsistenti e non attinenti alle nostre critiche. Comunque, chiunque può leggere il libro e constatare quante esagerazioni contiene. Cfr. Gomarasca, Alessandro (a cura di), La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Einaudi, Torino, 2001. Infine, bisogna ricordare che una solenne stroncatura de La bambola e il robottone è stata pubblicata dalla rivista "LG Argomenti". Si evidenziava così che lo studio della società di massa non può avvenire separatamente dallo studio della società in tutti i suoi aspetti istituzionali, economici e relazionali. Cfr. Martorella, Cristiano, Scaffale/Saggi, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002, pp.70-71.
3. Cfr. Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001, pp.50-78.
4. Cfr. Di Maria, Franco e Formica, Ivan, Hikikomori. Il male oscuro dei figli del Sol Levante, in "Psicologia contemporanea", n.179, anno XXX, settembre-ottobre 2003, pp.18-25.
5. Cfr. Kanehara, Hitomi, Hebi ni piasu, Shueisha, Tokyo, 2004. La traduzione inglese del titolo è un po’ differente essendo Snakes and Earrings (Serpenti e orecchini).
6. Cfr. Morris, Ivan, La nobiltà della sconfitta, Guanda, Milano, 1975.
7. Cfr. Iijima, Ai, Puratonikku sekkusu, Shogakukan, Tokyo, 2001 (traduzione italiana a cura di Gianluca Coci. 2004. Platonic Sex. Rizzoli, Milano). Il libro è stato accolto tiepidamente dalla critica italiana. Unica eccezione è stata la rivista "LG Argomenti" con un’entusiastica recensione. Cfr. Martorella, Cristiano. Segnalazioni, in "LG Argomenti", n.2, anno XL, aprile-giugno 2004, p.82.
8. Questa definizione è del padre della sociologia moderna, il tedesco Max Weber. Cfr. Weber, Max, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1958.


Bibliografia
Di Maria, Franco e Formica, Ivan, Hikikomori, Il male oscuro dei figli del Sol Levante, in "Psicologia contemporanea", n.179, anno XXX, settembre-ottobre 2003.
Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001.
Martorella, Cristiano, Il kawaii prima del kawaii, in Pellitteri, Marco (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1 anno XL, gennaio-marzo 2004.
Martorella, Cristiano, Yokuatsu. Repressione e giovani, in "LG Argomenti", n.2 anno XL, aprile-giugno 2004.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n. 3, anno II, ottobre 1996.
Martorella, Cristiano, Giappone inquieto, in "Sushi", nuova serie, anno III, settembre 1997.
Martorella, Cristiano, I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell’area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis. Gentosha, Tokyo, 2003.

martedì 13 maggio 2008

Kogyaru, le ragazzine vivaci

Ripropongo il mio articolo sulle kogyaru pubblicato dal sito Nipponico.com.


Kogyaru. Le ragazzine vivaci
Antropologia delle vispe ragazze delle metropoli giapponesi
di Cristiano Martorella

13 settembre 2003. Il termine kogyaru, spesso scritto anche kogal, è un neologismo giapponese nato negli anni ’90, ed è composto da un gairaigo (parola d’origine straniera), gyaru (forma giapponese dello slang americano gal, ragazza) e da un prefisso, ko (bambina). Kogyaru significa piccola ragazza, ragazzina, ed indica le giovani giapponesi fra i quindici e i vent’anni circa alla ricerca di un look particolare e un’esistenza spensierata tipica della loro età. L’etimologia del termine kogyaru è dunque semplice e non deve fornire l’occasione per assurde interpretazione (1). Ko è un suffisso usato anche nei nomi femminili (per esempio Haruko, Keiko, etc.) ed ha una valenza di vezzeggiativo. D’altronde è noto come per l’estetica giapponese ciò che è piccolo diviene carino e grazioso. Il tentativo della sociologa Sharon Kinsella di interpretare le kogyaru come un fenomeno di contestazione prodotto dalla società consumistica è aberrante e privo di fondamento scientifico. Le kogyaru si pongono obiettivi ben diversi da quelli supposti da Kinsella. Innanzitutto divertirsi, poi divertirsi e ancora divertirsi. Il loro motto è: "Se lo trovi divertente non chiederti perché". Cosa c’è di strano se le ragazzine vogliono trascorrere delle giornate piacevoli?
Fra le attività preferite dalla kogyaru c’è ballare il parapara. Il parapara è una danza già in voga nel 2000 che si balla muovendo le braccia e le gambe in un modo un po’ figurato. Però lo scopo del parapara è soprattutto creare il riconoscimento nel gruppo, identificandovi attraverso l’imitazione dei movimenti del ballo. Dal punto di vista antropologico il gesto permette anche l’integrazione spazio-temporale attraverso la modulazione delle forme e del movimento. Secondo André Leroi-Gourhan l’estetica costituisce l’evoluzione umana insieme alla tecnica e al linguaggio. Questo trittico etnologico composto da tecnica, linguaggio ed estetica ha un carattere differente nell’ultima istanza. Infatti l’estetica non è determinata soltanto dalla società, ma l’individuo è coscientemente libero della scelta e può perfino creare. Le kogyaru rispecchiano quest’analisi etnologica. Esse non cercano esclusivamente l’omologazione, piuttosto ricercano la creazione di uno stile individuale. Perciò definire un abbigliamento tipico delle kogyaru sarebbe improprio. Certamente svolge un ruolo importante la divisa scolastica che ha centinaia di varianti, così quanti gli istituti scolastici. A ciò si aggiunge la facoltà di cambiare alcuni indumenti, come per esempio i calzini. In particolare, i calzini più in voga fra le kogyaru sono i ruzu sokkusu (calzini larghi e pendenti, dall’inglese loose socks). Questi calzini larghi di colore bianco ricadono sulle scarpe coprendole parzialmente. La gonna, abitualmente una gonna corta blu scuro, si è evoluta in una minigonna a scacchi simile al tartan, di colore consono al resto della divisa. La foggia della divisa scolastica può essere alla marinara (sera fuku, dall’inglese sailor), ma anche un tailleur abbinato a una cravatta. Si tratta comunque di elaborazioni sulle divise dei college di tutto il mondo, a cui si aggiunge il gusto estetico delle kogyaru. Però l’abbigliamento delle kogyaru non è ristretto alla divisa scolastica, anche se questa è particolarmente amata perché simbolo dello status di studentessa e dunque icona della gioventù. Per un certo periodo sono stati di moda gli zatteroni, le zeppe alte e gli stivali, ma anche i pantaloni larghi a zampa d’elefante. Insomma, un ripescaggio del vestiario degli anni ’70. Tutto all’insegna del coloratissimo, dei colori pastello, del fluorescente, di qualcosa che sia sempre sgargiante ed evidente. Ciò con lo scopo di distinguersi assolutamente. Il motto delle kogyaru è: "Essere se stesse".
Per chi è esterno e poco confidente con questo mondo, le kogyaru possono apparire tutte uguali. Eppure i gruppi e le varie denominazioni sono estremamente differenti. Una attenta ricognizione rivelerà come realmente ogni kogyaru sia un’individualità con i propri gusti e tendenze. Perciò per quanto riguarda l’abbigliamento non si può fissare uno stile unico.
Il trucco usato adopera spesso fondotinta azzurri o bianchi che ingrandiscono gli occhi. Il rossetto è chiarissimo, rosa pallido oppure azzurro-violetto. Questo trucco a volte risalta sulla pelle abbronzata detta ganguro. Ganguro gyaru è anche il nome delle ragazze che vantano un’abbronzatura eccessiva. Anche le yamanba, altro celebre gruppo di ragazze trasgressive, hanno l’usanza di abbronzarsi artificialmente. I capelli delle kogyaru sono spesso decolorati castano chiaro (chapatsu), oppure il più vistoso biondo platino con riflessi argentei. Per esigenza di chiarezza, bisogna aggiungere che il tingersi i capelli non rappresenta più una stranezza considerando che questa pratica esiste da secoli in Occidente. Tingersi i capelli era una moda già presente fra le matrone dell’Impero Romano.
Molte riviste sono state dedicate alle kogyaru consacrando il loro status di fenomeno sociale, forse calcando un po’ la mano su una realtà giovanile che non ha nulla di eclatante. Fra queste riviste ricordiamo "Egg", "Urecco" e "Cream". Secondo Urasawa Naoki (2) il movimento giovanile giapponese ripeterebbe certi stilemi degli anni ’70, specialmente nell’estetica, privi però della stessa ideologia. Urasawa ritiene che l’epoca attuale è segnata da una bassa crescita demografica, e ciò impedirebbe la formazione di un movimento molto numeroso. Ridimensionare l’impatto della cultura giovanile giapponese non significa ignorarla. Piuttosto bisogna considerare meglio altri elementi della società che rimangono invisibili a causa di tanto clamore. In questo senso vi riesce Morikawa Kaichiro che elabora una teoria complessa sulle metropoli giapponesi. In precedenza avevamo accennato come le kogyaru con le loro attività integrassero le forme e i ritmi della metropoli modulandone lo spazio e il tempo. In parole semplici, una metropoli è ciò che si svolge in essa piuttosto che lo spazio artificiale degli edifici. Dunque le kogyaru sono coloro che creano fisicamente le metropoli giapponesi. Morikawa Kaichiro si spinge molto più in là. Egli ritiene che Tokyo possa essere considerata come un’unica enorme stanza privata. Si tratta di una comunità di interessi e di uno stesso gusto. Nel libro Learning from Akihabara - The birth of Personapolis, Morikawa , docente di architettura all’Università Waseda, descrive esaurientemente la sua teoria. Ciò che è decisamente innovativo in questo studio, che per certi versi riprende le idee di Ueda Atsushi, è l’attenzione all’ambiente rinunciando alle speculazioni della psicologia del profondo. L’analisi delle metropoli e della loro vita permette di elaborare una psicologia sociale e un’antropologia delle kogyaru molto più interessante e autentica. In conclusione, l’importanza che le kogyaru rivestono è dovuta soprattutto all’ambiente metropolitano che hanno creato.


Note
1. Sbagliata è l’etimologia e le deduzioni conseguenti suggerite dalla sociologa Sharon Kinsella nei suoi testi. Kogyaru non deriverebbe dalla contrazione di kokosei (studentessa delle superiori) e gyaru (ragazza). Sbagliato anche il tentativo di spiegare il termine shojo (ragazza) come rappresentativo di una figura di adolescente metà bambina metà donna prodotta dalla società industriale. Si tratta di speculazioni prive di fondamento e riscontro oggettivo.
2. Cfr. Urasawa, Naoki, 20th Century Boys, Vol.1, Panini Comics, Modena, 2002, pp.208-209.

Bibliografia
Fujii, Mihona, Gals!, Shueisha, Tokyo, 1998.
Kinsella, Sharon, Cuties in Japan, in Skov, Lise e Moeran, Brian, Women, Media and Consumption in Japan. University of Hawaii Press, Honolulu, 1995.
Leroi-Gourhan, André, Il gesto e la parola. Einaudi, Torino, 1977.
Martorella, Cristiano, Il Giappone inquieto, in "Sushi", anno III, settembre 1997.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.
Murakami, Ryu, Blu quasi trasparente, Rizzoli, Milano, 1993.
Murakami, Ryu, Rabu & poppu. Gentosha, Tokyo, 1996.
Prandoni, Francesco, Il tempo delle yamanba, in "Man-ga!", n.1, maggio 2001.

domenica 11 maggio 2008

Repressione giovanile

Ripropongo il mio articolo sulla repressione giovanile pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Yokuatsu. Repressione e giovani, in "LG Argomenti", n.2, anno XL, aprile-giugno 2004, pp.71-75.


Yokuatsu. Repressione e giovani
di Cristiano Martorella

La rivista "LG Argomenti" ha fornito, dal 2000 ad oggi, un quadro ormai completo sulla letteratura per l’infanzia, la fiaba, la pedagogia e la cultura giovanile del Giappone, un paese che non finisce mai di stupire per l’originalità e la ricchezza della propria civiltà. Adesso possiamo dedicarci a sviluppare studi più approfonditi che abbiano anche un aspetto sperimentale ed esplorativo, non soltanto informativo e accademico. La ricerca, come ci insegna Max Weber, non è soltanto un’accumulazione di dati, piuttosto è la capacità di elaborare costrutti intellettuali capaci di orientarci nella complessità empirica. Abbiamo già visto come le questioni inerenti alla società giapponese ci riguardino direttamente. Il metodo comparativo permette non soltanto di cogliere le similitudini e le differenze, ma di concepire i processi dello sviluppo in modo specifico, senza ricorrere a un modello evolutivo astratto considerato unico e valido per tutte le situazioni. Per questo motivo l’indagine che qui presenteremo sarà inusuale, anticonformista e inedita per i consueti canoni della critica letteraria italiana.
Una ricostruzione storica è un preliminare necessario per inquadrare la questione delicata del fenomeno otaku, prima di passare ai giudizi e alle conseguenze. Il fenomeno otaku, apparso in Giappone intorno agli anni ’80, fu inizialmente usato per marchiare negativamente una vasta fascia della gioventù che non voleva farsi inquadrare nel sistema rigido della società meritocratica (gakureki shakai). Con otaku si indicava una tipologia di giovane incapace di comunicare con gli altri, completamente assorbito in una passione o un hobby fino alla fissazione, e rinchiuso in se stesso tanto da identificarsi con l’ambiente della sua camera. Qui il gioco di parole fra otaku, che significa casa, ma usato anche come la seconda persona singolare del pronome personale in forma cortese, è evidente. Otaku è colui che si ripiega sull’ambiente domestico e bada soltanto a se stesso. La mentalità giapponese fortemente intrisa di una morale confuciana non ancora sparita, non riesce ad accettare un simile atteggiamento introverso, e soprattutto asociale. Il fine ultimo dell’individuo deve essere il bene della collettività secondo i princìpi confuciani. Evidentemente i princìpi astratti della morale confuciana si rivelano molto più artificiali e innaturali di quanto un’analisi superficiale possa pensare. Infatti il confucianesimo è soltanto un innesto nella società giapponese che fonda la sua struttura su basi pagane (shintoismo). Autori come Norinaga Motoori hanno espresso un forte dissenso e disprezzo nei confronti del pensiero cinese. Ciò non va dimenticato. Questa reminiscenza è anche importante per evidenziare come l’atteggiamento degli otaku, che recuperano la cultura autoctona, è pienamente coerente e consequenziale.
L’idea e l’immagine negativa degli otaku non è mai sparita, nemmeno quando il fenomeno è diventato una moda, con aspetti fortemente commerciali, e si è espanso all’estero. Gli appassionati di animazione e fumetti presero con slancio e orgoglio quella definizione, facendone una bandiera. Dopotutto i media sono abilissimi a creare mostri, e quest’ultimi sanno ormai come utilizzare la cassa di risonanza provocata dai clamori e dagli scandali. Appunto gli scandali che non sono mai mancati. Gli otaku infatti furono accusati di consumare fumetti e cartoni animati dai contenuti sessuali più perversi. Così il caso di Tsutomu Miyazaki, maniaco sessuale pluriomicida, fu assunto come esempio rappresentativo della minaccia otaku. Invece di porgere attenzione ai contenuti dei prodotti dell’editoria, si cercava il solito capro espiatorio e si fingeva di non vedere il sistema commerciale nato intorno ai presunti maniaci. La questione della sessualità dei giovani era divenuta talmente controversa che vi fu un autentico movimento per depistare e confondere i cittadini. Schiere di psicologi inventarono nuove patologie, e i sociologi nuove devianze. Era così riportato il tutto all’ordine, bastava dividere i giovani in sani e malati. Almeno così si credeva.
Il fenomeno della repressione contro i giovani assumeva aspetti inquietanti in un paese che godeva di un’ampia libertà sessuale e i diritti civili erano anch’essi garantiti. Eppure basta poco per sopprimere le libertà individuali. La stampa indicò nei giovani la causa della crisi economica, della crisi dei valori, e perfino la crisi demografica. Indolenti, viziati, dediti al sesso sfrenato, ecco il quadro dipinto dai giornali. Nessun intellettuale spese una parola in favore dei giovani, nessun politico vide una briciola di bontà nelle future generazioni. Solo la stampa alternativa, riviste specializzate e fumetti, difendevano i giovani. Praticamente erano le riviste scritte dagli stessi otaku. Meglio così. Ci si difendeva da soli, un’altra dimostrazione di autonomia. Ma facciamo un passo indietro. Cosa c’era sotto tanta ostilità, cosa provocava la paura degli otaku? Gli otaku erano un pericolo per l’assetto della società e per l’élite politico-economica. Essi sapevano usare straordinariamente bene le nuove tecnologie (computer, internet, telefonia mobile, immagini digitali, etc.), avevano così un’autonomia produttiva (riviste, gadget, video, etc.) erano radicati nella cultura autoctona (ripresa delle credenze shintoiste), avevano un estremismo estetico che scavalcava i limiti nazionali (l’immagine comunica più rapidamente della parola), e soprattutto rifiutavano la politica. Gli studiosi li definirono come un movimento non ideologico di contestazione. Anche qui l’analisi era superficiale e fuorviante, basata sui modelli del ’68. Gli otaku non erano interessati alla contestazione, essi rifiutavano in assoluto il modello politico della dialettica occidentale. "Basta con le chiacchiere, se qualcosa non la senti col cuore come puoi capirla con le parole?" Ecco un motto che spiega il diverso sentire degli otaku. Sarebbe stato più interessante accostare il movimento otaku all’esistenzialismo per coglierne qualche tratto più saliente. Però a nessuno studioso interessava davvero capire gli otaku. Era importante condannare e fornire il supporto ideologico per giustificare la reclusione di tanti giovani nei riformatori e nelle cliniche psichiatriche.
I punti di attrito col sistema democratico erano troppo forti. I giovani rifiutavano il sistema politico rappresentativo perché costituiva un inganno. Come può essere rappresentativo un sistema politico che seleziona i candidati in base al loro potere economico? I candidati sulla scheda elettorale non li scelgono gli elettori, ma gli apparati dei partiti. Dov’è la scelta dell’elettore? D’altronde l’opinione pubblica viene tranquillamente ignorata. Le guerre si fanno senza il consenso dei cittadini, e così procede anche la distruzione dell’ambiente tramite politiche economiche sempre più aggressive. Forse qualche politico tiene in considerazione la volontà degli elettori? Gli otaku rifiutavano la partecipazione a una società civile fondata sull’ipocrisia e la menzogna che si fa chiamare democratica per avere soltanto un maggiore consenso. Così erano chiare le due condanne della società civile contro il movimento otaku: 1) Il ritiro dalla società civile e la moratoria (sospensione dalla responsabilità della vita adulta); 2) L’abbandono delle ideologie (liberalismo, socialismo, comunismo, nazionalismo, etc.) e rifiuto del sistema politico. Ma chi condanna è spesso più colpevole di chi è puntato dal dito. Infatti tutte le accuse contro gli otaku non intaccarono minimamente lo sfruttamento commerciale del fenomeno. Per le aziende qualcosa è buono se si vende. Quindi le condanne moraliste contro la prostituzione delle liceali (burusera) furono soltanto un lungo spot promozionale di vendita dei prodotti più glamour. Infatti erano i giovani i consumatori più accaniti di certi prodotti. Molti prodotti estetici erano rivolti alle ragazze, perfino i centri estetici d’abbronzatura riguardavano un gruppo di giovanissime (yamanba e kogyaru). La florida industria del divertimento poteva sussistere soltanto grazie al lavoro e ai consumi dei giovani. C’era un gioco perverso fra chi condannava, con una falsa morale, la vita consumistica dei giovani, e gli stessi che gestivano e lucravano sul mercato.
Un esempio letterario di questa tendenza è stato rappresentato dalla scrittrice Banana Yoshimoto. Le sue opere descrivono personaggi sospesi in una vita quotidiana dove lo shopping, la cucina, un hobby, costituiscono il senso della loro vita. Una caratteristica molto simile alla tipologia dell’otaku. In una atmosfera ovattata, dove non c’è cognizione di bene e male, giusto e sbagliato, i personaggi si rivelano soltanto in base alla loro capacità di decifrare e dare senso al flusso di percezioni. Aspetti legati alla sessualità scivolano senza l’emozione di una passione. Nei romanzi di Banana Yoshimoto si accenna alla prostituzione, all’incesto fra fratello e sorella, e altre relazioni sessuali illecite, in modo poco coinvolgente e con indifferenza. Sembra che la sessualità sia concepita come un bene di consumo piuttosto che una passione. La scrittrice Reiko Matsuura utilizza il sesso per creare un effetto di straniamento attraverso l’inusuale. Il corpo diventa una bandiera e una forma d’espressione fino al limite. Nel romanzo Oyayubi P no shugyo jidai (L’apprendistato dell’alluce P) narra le vicende erotico-comiche della ventiduenne Kazumi che scopre la trasformazione del suo alluce destro in un pene. La scrittrice Miri Yu narra le vicende di adolescenti allo sbando come in Oro rapace. Una critica feroce ai media e al loro potere di manipolazione è portata avanti in Scene di famiglia. La star televisiva Ai Iijima, diventata scrittrice di successo con la sua autobiografia, cerca di rendere manifesto come si possa trovare un percorso personale che dia senso alla vita degli adolescenti oppressi in un mondo di adulti cinici e bugiardi. In Platonic Sex riesce perfino a dimostrare la purezza dell’animo che rimane inattaccabile nonostante lo sfruttamento sessuale.
La tendenza della letteratura giovanile giapponese sembra essere rivolta ad una denuncia sociale che usa la sessualità come forma di protesta o almeno come dichiarazione d’autonomia. Ciò corrisponde alla tradizione inaugurata nell’epoca Edo (1600-1867) dagli intellettuali vicini alla chonin bunka (cultura dei mercanti). Fu in quel periodo che il governo shogunale adottò un massiccio impiego della polizia per reprimere i testi, le opere teatrali, i libri di stampe troppo critici, adottando il pretesto della moralità. Oggi questa trasformazione viene condotta dai giovani con le modalità che abbiamo visto in precedenza. Non si tratta né di una rivolta né di una rivoluzione, ma di uno strappo forte con gli stili di vita imposti dal regime democratico. Forse ciò è più duraturo e significativo nei cambiamenti. I punti di attrito con il sistema democratico sono soprattutto: 1) La politica sessuale repressiva nei confronti dei giovani; 2) La mancanza di stabilità sociale intaccata dalla disintegrazione del lavoro stabile e dell’assistenza sociale. L’emergenza del disordine sociale creato dalla politica economica diretta esclusivamente a garantire i profitti delle aziende, porterà inevitabilmente ad acuire la repressione nei confronti dei giovani. Arrivati al punto di rottura il sistema democratico a sostegno della dittatura dell’azienda si sfalderà. Un’importanza enorme avrà la letteratura in tutte le sue forme narrative. Infatti l’unico fattore unificante degli otaku è la letteratura (riviste, fumetti, ipertesti, etc.) con la sua capacità di creare una sensibilità comune. Il Giappone sarà il laboratorio sociale del futuro. I passaggi cruciali saranno costituiti dalla critica al modello familiare troppo oppressivo, all’esaltazione dell’edonismo e all’affermazione della libertà sessuale. Parte di questa ricostruzione sociale avverrà con il recupero delle soluzioni tramandate dalla cultura tradizionale. Infatti la sessualità aveva un ruolo più equilibrato e fondativo nel mondo degli antichi, una concezione distrutta dal moralismo delle religioni monoteiste dove il sesso è il peccato per eccellenza. Lo stesso piacere della vita era esaltato dai pagani, viceversa attualmente l’edonismo è sfruttato a livello commerciale ma negato a chi non può comprarselo. Circa la sessualità dei giovani, essa è negata, occultata e ignorata. A livello scientifico ciò provoca un’acuta forma di schizofrenia fra i risultati oggettivi della ricerca e il moralismo bigotto. La letteratura ha il dovere di raccontare cosa sta accadendo nel nostro mondo. Le opere degli autori giapponesi stanno cogliendo questo risultato.



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Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Yokuatsu. Repressione e giovani, in "LG Argomenti", n.2, anno XL, aprile-giugno 2004, pp.71-75.